L'avventura è dentro di noi
I cui pregî emergono, palesi e suadentissimi, ove la rappresentazione operistica goda di due acconce e straordinarie voci: quelle vòlte ai personaggî di Giulietta e di Romeo, che gran parte del pathos e del dramma della vicenda accolgono ed esprimono in pura vibrazione di canto estatico. Del resto la Musa di Bellini è una sorta di fatata ed immacolata parentesi fra le precedenti ed auree effigie sonore di Spontini, Cherubini e Rossini, e la crisi melodrammatica che seguirà nel secolo decimonono lungo Donizetti e Verdi, e Puccini in quel Novecento che patirà, nella burbanzosa indifferenza della cultura italiana, la dissoluzione del teatro musicale: satollo d'esperienze le piú bischere, lorde ed artificiali. Dopo l'inaugurale e storica rappresentazione della «Marie Victoire» respighiana, e dopo aver ospitate le usuali accensioni d'estro di Roberto De Simone nel fantasioso connubio tra il monteverdiano «Combattimento di Tancredi e Clorinda» e «L'Histoire du Soldat» stravinskijana, il Teatro dell'Opera è ora approdato al summentovato titolo belliniano. Uno scrigno del belcanto, un repertorio di virtuosismo vocale, un manuale di canto filato e di mezzetinte, che a chi piace ha modo d'imparadisàrsene un'intera serata. Non v'ha tragedia, né fiere tenzoni, né urgenze civili, in quest'amore scespiriano adombrato da Bellini, ma il tenero ondulare della nuda melanconía che carezza ogni forma di sé stessa. Alla quale la voce del soprano Adriana Marfisi, nei panni di Giulietta, ha saputo di rado render merito a causa d'un timbro piuttosto stridulo e d'una tecnica non lucida, massime nel registro acuto. Tant'è che i piú fervidi consensi sono stati dal pubblico indirizzati al mezzosoprano Sonia Ganassi, Romeo en travesti, che ha superato lo scoglio della bassa statura rimpetto all'imbaciata amata (per altro mica spilungona) con una voce di piú corretta impostazione. Onorevoli Franco De Grandis (Capellio) e Franco Lufi (Lorenzo), mentre è incappato in una serata grama assai il Tebaldino di Francesco Piccoli. La regía di Roberto Laganà Manoli era fragile come la musica belliniana; anzi, di piú, sull'orlo dell'evanescenza. Per contro, il savio Nello Santi ha diretto con saldo mestiere, senza tanti squinci né quindi: diremmo quasi piú Donizetti che Bellini.