Los Angeles, debutta il film di Gibson. Dai vescovi Usa un manuale politicamente corretto per vederlo
Così, si potrà finalmente giudicare se «La Passione di Cristo» sia un buon film o un cattivo film, un capolavoro o una bufala. E, soprattutto, se sia religiosamente «corretto» o no; se la figura di Cristo ne venga fuori sufficientemente nitida, incisiva, credibile, oppure se sia stata stravolta, banalizzata, o, peggio ancora, piegata a una ideologia ultraconservatrice, a un tradizionalismo di tipo lefebvriano. Finora, del lavoro di Mel Gibson, è stato detto tutto e il contrario di tutto. È stato detto che raffigura mirabilmente le ultime tragiche dodici ore della vita di Gesù; ma anche che la Passione è stata proposta in maniera troppo cruda, se non brutale, e non sempre fedele ai «resoconti» degli evangelisti. È stato detto che il film è ferocemente antisemita, e anzi rischia di alimentare ulteriormente l'antisemitismo; ma anche, al contrario, che si limita ad esporre i fatti, senza aver l'intenzione di colpevolizzare gli ebrei di allora, né tanto meno quelli di oggi. È stato detto che il Papa, dopo aver visto il film, lo avrebbe sostanzialmente approvato, affermando che «racconta quello che è stato»; ma poi dal Vaticano hanno smentito, anche se con una certa ambiguità, quel suo commento. Alcuni autorevoli personaggi ecclesiastici, compreso un cardinale, hanno parlato di un «trionfo d'arte e di fede», pur nei limiti di una ricostruzione cinematografica; mentre altri si sono espressi in modo critico. E la stessa cosa, seppure con una prevalenza delle opinioni negative, s'è ripetuta negli ambienti ebraici. E allora? Allora non resta che andare a vedere «The Passion». E verificare se Mel Gibson, come ha dichiarato, sia riuscito a fare quel che altri non sono stati capaci di fare: mostrare Cristo nella duplice dimensione umana e divina. È già difficile ricostruire interamente la vita di Gesù. Immaginiamoci perciò quale impresa possa essere il descrivere - con la macchina da presa, e ricorrendo solo al latino e all'aramaico - il momento culminante dell'esistenza terrena di Gesù, la morte sulla croce, che prelude alla resurrezione. Il problema sta appunto qui: nel riuscire a raccontare insieme il Gesù storico - che, in quanto tale, può interessare tutti, anche i non credenti - e il Gesù della fede - nel quale credono quanti si riconoscono nel Vangelo. Ma già ora, ripensando al clamore che è andato via via crescendo attorno a questo film, anche se non di rado molto strumentalmente, molto artificiosamente, non si può fare a meno di rilevare l'altissimo interesse che la figura di Gesù ancora una volta ha sollevato, oltretutto in riferimento al suo aspetto più tragico, quello del sacrificio supremo sulla croce. Ed è significativo che tutto questo si sia manifestato specialmente in America. All'inizio degli anni Cinquanta, Guido Piovene, spirito profondamente laico, compì un lungo viaggio attraverso gli States raccontandolo sul «Corriere della Sera». Poi, riuniti gli articoli in un libro, aggiunse una prefazione dove fece delle osservazioni di grande interesse sulla religiosità degli americani. Una religiosità - scrisse - dove la Passione veniva lasciata in ombra e la Redenzione aveva una parte quasi esclusiva. Insomma, un Cristo senza croce, e invece tutto guaritore, tutto redentore. Piovene si chiedeva se la civiltà alla quale l'America sembrava inclinata fosse una civiltà cristiana. «Sono convinto che in questa fase post-cristiana del mondo si stiano elaborando forme di vita religiosa diversa sotto l'etichetta cristiana». In altre parole, lo scrittore intuì che, con una religione così, anti-dolore, anti-morte, il cristianesimo correva seriamente il pericolo di perdere ciò che ha di più specifico. Ed è appunto quel che è successo anni dopo, specie con l'insorgere della «New Age», delle religioni del fai-da-te, ispirate a un profondo relativismo, spirituale e morale. Ebbene, ciò che è avvenuto finora per «La Passione di Cristo» - senza voler con questo dare un giudizio positivo sul film, oltretutto non anc