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Quel premio Nobel sembra Joyce

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Al centro del romanzo la scrittrice australiana e i suoi viaggi in EuropaUn lavoro di inconsueta struttura poiché riesce a mischiare racconto e saggio I difficili rapporti dell'autore con i media che cercano inutilmente di intervistarlo

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È australiana di Melbourne, dove vive dopo aver percorso in lungo e in largo Inghilterra e Francia. Per due volte sposata, due figli, uno da ogni matrimonio. Il quarto romanzo le ha dato la gloria, «The House on Eccles Street», nel 1969, la cui protagonista è Marion Bloom, moglie di Leopold Bloom, a sua volta figura centrale di un celebre romanzo, l'«Ulisse» di James Joyce. Forse anche per indiretto merito di quest'ultimo, Elizabeth Costello ha ricevuto una infinità di riconoscimenti, in patria e fuori. Negli ultimi dieci anni le è spuntata intorno una vera e propria industria critica: nel New Messico, ad Albuquerque, esiste perfino una Elizabeth Costello Society che pubblica un bollettino trimestrale, la Elizabeth Costello Newletter. J. M. Coetzee, Premio Nobel 2003, è andato a pescare questa inconfrontabile figura di donna e di scrittrice e l'ha situata al centro di questo suo nuovo, singolare romanzo, «Elizabeth Costello» appunto, strano nella struttura, e tuttavia avvincente poiché il termine di mediazione fra narrativa che fa emergere il personaggio, e saggistica che affonda le radici nel vivo della problematicità di una sottesa inquietudine — che poi è quella del grande autore di Dublino — irradiata lungo l'intero percorso del testo attraverso sei "lezioni" che si concludono con un poscritto che poi risulta essere una lettera a Francis Bacon, il quale viene messo a parte della vicenda, anzi del profondo tracciato interiore che avvolge entro misteriche spire lettore e protagonista. Cerchiamo di venirne a capo, ricordando prima di tutto che si tratta di un viaggio, dantescamente o meglio joycianamente inteso, quasi in antitesi al corrente concetto di navigazione mediatica che occupa i nostri giorni, il nostro vitale quotidiano. Coetzee, con una capricciosa genialità, interferisce nella segnaletica ulisside, e arricchisce il viaggio di innumerevoli incontri, con creature reali o immaginarie, creando così un romanzo in forma nuova e diversa, costruito lungo l'arco di sei "stazioni" in cui la Costello, ormai in là con gli anni, insegue con la mente, con il pensiero, emozioni e sentimenti di forte, sensibile continuità. Elizabeth insomma si batte fra incudine e martello: da una parte la tentazione di rivelare i propri segreti emotivi, le inquiete percezioni del sensibile, e d'altro canto sfuggire alla curiosità del lettore che vorrebbe saperne di più, e più procede nell'incontro, e più deve confrontarsi con un velo che nasconde la nuda cronaca, il vero e il reale. Elizabeth racconta, si apre e si disvela, e chi legge viene sempre più distaccato dal racconto e sempre meno invogliato a saperne di più. La tecnica dell'ineffabile, quello che non si riesce a dire, coinvolge e intrica. Ad ogni "stazione" il resoconto si fa più complesso e difficile: ad Amsterdam, si assume la responsabilità di raccontare il Male, un bel problema, tanto più che è stata accusata di aver titubato sull'Olocausto. «E se tentasse di ammorbidire la sua tesi? Se insinuasse che, nel rappresentare le azioni del male, lo scrittore potrebbe "involontariamente" averlo reso attraente, ottenendo con questo l'effetto opposto a quello voluto?». Una dopo l'altra, Elizabeth, nei suoi percorsi inquietanti, a bordo di una nave da crociera ad esempio, si sforza di dissacrare, sospingendole ai margini dell'assurdo, le compiaciute certezze illuministiche, un'altra questa, delle sei ossessioni sulle quali si regge l'impianto narrativo dell'intero mosaico. È evidente che ad ognuna delle ossessioni, si perdoni la ripetizione, corrisponde un risvolto biografico, un frammento di una personalità complessa e misteriosa, che talvolta sembra voler tingere di giallo una vicenda interiore che trova difficoltà a sfociare nel grande mare dell'essere. E qui viene fuori l'inaccessibilità dello scrittore Coetzee, che ha vissuto la notorietà del Nobel come una sorta di condanna: reste

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