Un velo per la salvezza degli ebrei
Non credo sia stato soltanto geniale intuito quello di Elena Loewenthal, scrittrice piemontese studiosa da sempre dei sacri testi della tradizione ebraica, traduttrice della letteratura d'Israele oggi così fiorente, quando è andata a scegliersi un drappo, un velo che passa di generazione in generazione, dalla Genesi fino ai giorni nostri, per esemplare la continuità tenace di una persecuzione che dal simbolo trapassa nella realtà del gesto violento per poi restituirsi alla leggerezza del velo. Storie di lacerazioni continue e inesauste, queste «Attese» che si presentano come racconti — pur se legati da un tenue tessuto — e che invece posseggono la struttura e la consistenza della trama che si prolunga, della testarda sequenza di un dolore tanto immedicabile quanto dilungato sull'arco di anni terribili e interminabili. Non ci sarebbe neppure bisogno di descrivere l'oggetto-trama della drammatica sequenza, eppure la Loewenthal vuol obbedire alla precisione: «È un pezzo di stoffa. Fibra di lino ruvido e poi, a poco a poco, sgualcita dal tempo che passa. Non ha colore, ombra e luce, soltanto carpisce dalle mani che sfiorano, prendono, toccano, muovono. Un intreccio sottile ma robusto, trama e ordito infinite volte». È Rebecca il primo filo della traumatica tessitura, e viene colta nell'ora e nel momento in cui, al tramonto, le donne «vanno ad attingere l'acqua», lei sorella di Labano, sposa del secondo dei patriarchi, madre dei gemelli Esaù e Giacobbe: la scrittrice ne racconta la vicenda delicatamente, appena sfiorando lo sfondo dell'Antico Testamento, e lasciando invece la totalità del proscenio al personaggio, anzi alla simbologia dei braccialetti che tintinnano alla caviglia. È il sintomo di una cercata, e ritrovata, leggerezza, che deve straniare dal sentore di tragedia che circola nell'aria. Va verso l'ignoto, incontra uno sconosciuto che poi si manifesta come Isacco, nasconde il volto dietro il velo, castamente come le antiche donne: vuole preservare la tenerezza dell'incontro d'amore da ogni forma di impossessamento. Ma quest'ultimo non tarda a giungere e manifestarsi sotto le spoglie di Claudia, agli albori del Novecento, la raggiunge inconsapevole dei significati drammatici che si celano dietro quel velo. Claudia non sa che cosa sta preparando la Storia. Dietro al velo c'è la terra d'Israele, la sua vicenda lontana e vicina, impietosa. È sacro, quel povero velo: e quando i tedeschi nazisti vengono a trascinar via Elvira e Ariodante, non si accorgono che salvano dalla rapina quattro piccoli fagotti, lasciati lì a rappresentare la sequenza, la continuità di un rito. La catena è lunga, ogni gancio che congiunge una maglia all'altra è una vittima che solleva il velo, lo salva prima di sprofondare nella fossa comune della morte. Si arriva così all'ultimo anello, quello della imprevedibile contemporaneità, quando tutto assume i contorni dell'assurdo, dell'incredibile. La perseguitata di oggi è promanazione della tecnologia, della violenza mediatica: c'è il display a sostituire l'oracolo di Apollo, annuncia chi chiama, disvela ciò che sta per succederti. Muoiono le «attese» se il futuro è tutto lì, bello che spiegato, con la spietata energia del già visto, già sentito, già duramente pagato. Resiste solo il velo che è finito, legittimamente, nelle mani del rabbino, giovane e speranzoso, che sta lì, davanti a un portone, ad attendere la venuta del Messia. Elena Loewenthal «Attese» Bompiani 202 pagine, 14 euro