«Viaggio al centro della Terra», elogio dell'ingegno contro le avversità
Si viaggia per terra e per mare, negli abissi infernali o di cielo in cielo, attorno alla propria stanza o dentro la propria coscienza, con i piedi ben piantati nella cronaca o volando nella fantasia, perché ci attraggono i paesaggi di geografie ignote o perché il più sconosciuto scenario è quello dell'anima e inseguiamo un po' di luce, per scoprire, ritrovare, dimenticare, alla ricerca di noi stessi, del tempo perduto, «au bout de la nuit», in cima alle vette, tra brandelli di ricordi, lungo i percorsi dell'immaginario, dietro gli incantamenti di un fantasma d'amore, alla conquista di un magico anello. Rilke diceva che si viaggia per tornare. Ed in fondo è così anche per Jules Verne: i suoi protagonisti vogliono «tornare». Certo, dopo aver visto, dopo aver seguito «virtute e conoscenza», animati dalla «curiositas» che è la spinta a sapere: e «sapére», da «sàpere», è saggiare, provare, sperimentare, sfidare; così come l'«avventura» ci riporta all'«advenio» che è un muoversi in vista di uno scopo, di un obbiettivo: e dunque è percorso orizzontale - anche qui, nomi, luoghi, incontri, vicende eccetera che si accumulano - e itinerario verticale, crescita interiore, tensione conoscitiva, carattere che si forma. Di Verne molto è stato detto e, forse, più ancora, «contro» Verne: in realtà, la rilettura dei suoi romanzi non può se non rivalutarlo come poeta e pedagogo. Il poeta viaggia tra le stelle, sotto i mari e nelle viscere della terra, ma ha solide conoscenze scientifiche: e questo gli consente anche di «avventurarsi», come un Leonardo del XIX secolo, negli universi del possibile, in ciò che è, sì, «a venire», ma che già è presente nella mente dell'uomo, anticipato da un'intuizione, un progetto, una scoperta cui inevitabilmente ne seguiranno altre. Il pedagogo ammaestra i cuori avventurosi a non confidare unicamente nelle macchine: importanti, indubbiamente, fondamentali, se vogliamo, e del resto frutto dell'umana invenzione; ma così come «inventare» è un trovare ciò che già è «in nuce» nella mente umana e solo aspetta di esser tradotto in una forma, in un oggetto, in una macchina, appunto; al tempo stesso, l'«invenzione» forse più significativa e profonda è quella che riguarda noi stessi. La scoperta di noi nel pericolo; l'esperimento di noi stessi dinnanzi alle prove estreme; la verifica del nostro carattere e, diremmo, della nostra capacità di «ingegnarci», allorché una circostanza formidabile, straordinaria e il venir meno di qualunque risorsa esterna, di qualunque mezzo e strumento che sia un prolungamento del nostro cervello o dei nostri arti, ci impongono di attivare le estreme risorse del coraggio e delle mani nude. Verne, maestro, ci insegna che la prima molla della sopravvivenza viene dalla contrapposizione a ciò che appare più forte di noi e che, collocato in un'aura di sinistra potenza, minaccia di sopraffarci. E basti pensare a questa avventura, a questo «Viaggio al centro della Terra», di cui giustamente Maria Bellonci coglie il forte messaggio «morale». Zio e nipote scendono nelle viscere della pianeta attraverso un cratere islandese, dopo che la pergamena di un ardito esploratore, celata in un antico libro cinquecentesco, ha loro lanciato l'invitante messaggio-sfida: «Discendi nel cratere dello Sneffels, viaggiatore ardito, e perverrai al centro della Terra. E questo ho fatto io, Arne Saknussem». «Sempre più spogli e disarmati», via via perdendo le macchine più sofisticate e i più comuni attrezzi d'uso di un esploratore sotterraneo, e alla fine persino i vestiti, persino i viveri, viaggiano tra gallerie di granito, foreste di felci, acque vorticose, mostri preistorici, fitte tenebre e vulcani in eruzione; e sembrano sempre più prede e sempre meno cacciatori, perché su di loro la Natura incombe e si scatena feroce, seminando sgomento, orrore, angoscia. Ma il lieto fine è d'obbligo, già sussurra qualcuno. Ebbene, per Verne, l'«obbligo» non è la