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di GIAN LUIGI RONDI IL SIGNORE DEGLI ANELLI - IL RITORNO DEL RE, di Peter Jackson, con ...

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È FATTA. Il Male ha perso, il Bene ha vinto. Come accade sempre al cinema, come accade spesso nei romanzi e come puntualmente accadeva nella grande trilogia di Tolkien, «Il Signore degli Anelli», cui il regista neozelandese Peter Jackson ha dedicato tre film: per concludere in gloria con questo di oggi, il più festoso e il più guerreggiato degli altri due. Al centro, ma solo per riassumere un po' la sua materia quasi sterminata, due gruppi. Da una parte gli hobbit della Terra di Mezzo, Frodo (Elijah Wood) e Sam (Sean Astin), con l'onerosa incombenza, uno, di arrivare sul Monte Fato, nel fosco regno di Mordor, per distruggervi l'anello maledetto trovato per caso nel primo film. Dall'altra, intenti a distanza a favorire quel difficile viaggio, il Mago Gandalf (Ivan McKellen) barba, vesti e cavallo candidi, il guerriero Aragorn (Viggo Mortensen), l'umano che poi diventerà Re, altri umani e vari elfi tra cui la bella principessa Arven (Liv Tyler) innamorata di Aragorn. Di fronte, una molteplicità di cattivi che, agli ordini di un Oscuro Signore di cui si ode solo la voce, Sauron, aspirano a distruggere gli umani e che, conoscendo l'immenso potere malefico dell'Anello, fanno di tutto, anche l'impossibile, perché Frodo non riesca a distruggerlo. Due viaggi, così, anzi due peregrinazioni, con i buoni qui e i cattivi là, conclusi alla fine — comunque dopo varie contese — dalla gigantesca battaglia cui tende fatalmente tutta l'avventura. Tanto di cappello a questa battaglia e a molti degli episodi corali che la precedono. Il digitale la domina e fa miracoli: con orchi, elefanti da guerra, ragni giganti, teste mozzate lanciate grazie a delle orrende catapulte e uno scontro quasi corpo a corpo di centinaia di migliaia di contendenti moltiplicati quasi all'infinito dalle magie elettroniche. In cornici splendenti (quelle dal vero riprese in Nuova Zelanda), tra scenografie che inventano a piacere città e castelli, e sempre, nelle foreste, con alberi parlanti. Se la coralità conquista, non si possono non riconoscere però a Jackson e ai suoi sceneggiatori molte convincenti attenzioni psicologiche nel disegno dei tanti personaggi, tutti bene interpretati. A un «kolossal» cosa chiedere di più, anche, se, nonostante le sue tre ore e mezzo, molti passaggi di Tolkien ha dovuto eliminarli?

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