di PAOLO CALCAGNO IL RAFFINATO ricamatore della musica seriale, il re del minimalismo delle ...
Il celebre compositore americano ha riunito colleghi e compagni di lavoro di ogni parte del mondo per allestire lo spartito celebrativo che accompagnerà i Giochi olimpici 2004, come ci ha anticipato in un incontro ripreso dalle telecamere di Cult (Sky Tv) che lo trasmetteranno a partire dal 22 gennaio. Philip Glass, ha detto che la musica può incontrare tutti, dall'ignorante all'intellettuale e che essa può essere amata anche da chi non sa leggere le note. È sempre convinto che la musica esprima questa alta concezione democratica? «Credo che mio padre fosse il tipo ideale di spettatore. Era un modello di pubblico per me. Non conosceva la musica, non l'aveva mai studiata, ma l' amava e aveva un eccellente orecchio. A quel tempo, lui amava la musica moderna, gli piacevano Shostakovic e Bartok, e bisogna tenere presente che questo accadeva 50 anni fa. Credo che l'atteggiamento giusto per comprendere la musica e apprezzarla debba essere lo stesso di quando osserviamo un edificio: non c'è bisogno di essere architetti per visitare un palazzo». Farsi capire dai meno coltivati musicalmente è la grande sfida di un compositore? «C'è una grande differenza tra la musica da concerto, che è più astratta, e la musica basata su un testo, un movimento o un'immagine, insomma la musica per il teatro. Per esempio, quando lavoro a teatro cerco di rappresentare idee, problemi sociali, idee politiche, mentre quando eseguo musica concertistica penso alla musica soltanto in modo astratto. Questo ha la sua importanza e la sua qualità, perché quando eseguo questo tipo di musica penso a una forma pura. Ma io sono stato sempre interessato a una musica d'impegno, che ci faccia pensare alle dimensioni sociali della nostra vita. Per esempio, ho scritto un'opera su Gandhi, che tratta la trasformazione della società attraverso la non-violenza. E con "Gandhi" sono riuscito a trascinare il pubblico e me stesso verso una speciale attenzione a quest'idea». Lei è religioso? «Non particolarmente, ma leggo molto su queste cose. Non c'è un tempio che possa trovare in me. Ho scritto la Sinfonia numero 5 nella quale ho inserito testi di ogni tradizione religiosa, non solo di religione cristiana, ma anche di fedi indigene, africane, asiatiche. E, quando leggiamo il testo tutto insieme, ci sembra scritto da una sola persona». Ha collaborato con i più grandi della scena contemporanea, chi l'ha influenzata di più? «Allen Ginsberg, forse, è stato il più importante. E poi Robert Wilson. E poi ho lavorato anche con Laurie Anderson e Susan Vega, la coreografa Lucinda Childs. Ah, John Cage! Lui è stato un grande modello, non tanto per la musica quanto per il modo d'essere. Era molto ispirato dai giovani compositori». E con Wilson tornerà a lavorare, farebbe un altro «Einstein on the beach» o un nuovo «Monsters of Grace»? «Sì, lavoriamo ancora assieme. Ho parlato con lui la settimana scorsa, stiamo progettando un nuovo lavoro. Spero che lo faremo, anche se prenderà qualche anno. Bob e io, in oltre 25-30 anni, abbiamo fatto 4 opere». Fra i suoi grandi compagni di lavoro c'è anche l'indiano Ravi Shankar. «L'ho incontrato nel 1965, a Parigi, quando diventai suo assistente. Poi, gli fui molto vicino e abbiamo mantenuto questo legame fino ad ora. Abbiamo lavorato assieme anche per la musica delle Olimpiadi di Atene. Ci sono due cose importanti da considerare su di lui: primo, Shankar è un compositore e un performer, non si è guadagnato da vivere al Conservatorio: lui esegue la sua musica dal vivo, di fronte alla gente, alla stessa maniera di John Cage. Ravi ha un'altra qualità speciale: lui viene da una tradizione musicale diversa dalla nostra. E quando ho capito che il suo era il più alto livello in termini di ispirazione artistica, mi sono reso conto che gli strumenti della musica occidentale non sono gli u