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di DARIO ANTISERI «LETTERA a un amico no global» di Alberto Mingardi (Rubettino) è un bel ...

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Chiede Mingardi all'amico no global: «Tu sollevi problemi, questo è certo. Ma sei sicuro di affrontarli nel modo giusto? Sei certo che il tuo aggrapparti alle sottane dell'autorità, domandare più Stato, (più "aiuti", più imposte, più regole: tutti sottoprodotti del Potere) sia una soluzione davvero affidabile? Mi ha lasciato basito il fatto che tu da una parte rinfacci a un fenomeno, "la globalizzazione", di spingerci verso un mondo in bianco e nero, costretti ad un'omologazione innaturale, mentre dall'altro difendi una particolare istituzione, la scuola pubblica, che per coltivare consenso è stata espressamente concepita». Ecco dunque i motivi di contrasto con l'amico no global. «Da parte mia — dichiara Mingardi — spero nella globalizzazione per lo stesso motivo per cui diffido della scuola pubblica: mi piace la differenza, la concorrenza, la libertà di scegliere tra possibilità diverse».. «Per globalizzazione — annota l'Autore — si intende quel processo in cui s'è reincarnato un ideale politico liquidato in tutta fretta: il libero scambio, agitato come una bandiera da tutta una scuola di economisti sette-ottocenteschi e seppellito con disprezzo da numerosi becchini nel corso del Novecento». Va fatta in ogni caso una distinzione tra libero scambio e globalizzazione: «Per libero scambio si intende la possibilità per un Paese di commerciare con uno o più Paesi in assenza di barriere protezionistiche. Per globalizzazione si intende invece la libertà di commercio in quasi tutti i settori con un numero pressoché illimitato di controparti attive in un numero "abbastanza elevato" di Paesi ». Ciò premesso Mingardi precisa che la globalizzazione è un fatto e un ideale, che noi viviamo in un mondo «in via di globalizzazione»; che senza «la globalizzazione noi non potremmo godere dei comfort che hanno cambiato la nostra vita da così a così» che «la divisione del lavoro è un modo per mettere in comune le conoscenze»; che la moralità del mercato affonda le sue radici «nel fatto che esso lascia intatta la libertà di scelta degli individui e anzi l'amplifica, facendosene megafono e grancassa». Dibattuto è oggi il tema del lavoro minorile, visto dai più come una piaga fa estirpare. Si tratta ovviamente di un giusto sentimento morale. Ma con la realtà i conti vanno fatti e noi, «nella nostra opulenza di occidentali, falliamo miseramente nel comprendere come l'azione di quelle imprese multinazionali (il grande Satana del movimento no global) che danno lavoro ai bambini costituisce per loro un'opportunità. Un'opportunità indubbiamente imperfetta, ma un'opportunità, in una situazione nella quale sembrava non esservene alcuna». Inoltre, nessuno può negare i benefici del libero scambio. Jeffrey Sachs e Andrew Warner — ricorda Mingardi — hanno dimostrato come tra il 1970 e il 1980 i Paesi in via di sviluppo con una economia aperta («globalizzata») siano cresciuti con un tasso annuo del 4,5%; mentre quelli con una economia chiusa solo con un tasso dello 0,7%. E ai sostenitori del diffuso pregiudizio, stando al quale la «modernizzazione dei paesi in via di sviluppo implica una «occidentalizzazione» se non una «americanizzazione» obbligata del loro way of life, Mingardi fa presente che pensarla così equivale ad avere una ben scarsa considerazione della cultura altrui; e che non bisogna stancarsi di ripetere che «il mercato non ha una sua cultura». E «se è da evitare una prospettiva euro o americano-centrica, è anche vero che non è difficile comprendere come chi vive ancora in condizioni primitive cerchi di emanciparsene». Emancipazione non equivale affatto ad omologazione della cultura: il Giappone è un classico esempio. Nell'orizzonte di questi pensieri liberali risultano comprensibili le ragioni a favore della scuola libera. Per Ming

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