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Coraggio, lealtà. Sulla scia dell'«Ultimo samurai» il Giappone e i suoi valori fanno riflettere l'Occidente

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Si fa fatica a dare una definizione e, se l'andiamo a cercare sul vocabolario (abbiamo sotto mano lo Zanichelli), avvertiamo un senso di disagio: perché tutte quelle belle qualità che l'onore riassume - integrità di costumi, rispetto dei principi morali, buona reputazione, consapevolezza della propria dignità e volontà di mantenerla intatta, decoro ecc. - sembrano esser volate via dall'orizzonte quotidiano. O presentarsi come patetici, anacronistici residui. Al punto che - e non c'è in noi alcun intento sarcastico - vien quasi fatto di rimpiangere i tempi («où sont, où sont les neiges d'antan?»), in cui il delitto d'onore, il codice d'onore, l'onorata società, le questioni d'onore ecc., pur abusando del significante e facendo un uso distorto del significato, riservavano loro una qualche attenzione. E tuttavia quel che si è cacciato dalla porta si riaffaccia alla finestra. Nel senso che l'immensa macchina dell'«immaginario collettivo» - il cinema e, in particolar modo, il cinema americano - viene a rispondere agli oscuri bisogni delle masse, con le «mitologie» di maggior richiamo: quelle dell'onore. Da «Rambo» al «Signore degli Anelli». La virilità eroica e guerriera; il corpo, la mente, il carattere che sfidano gli eventi e la fortuna avversa; il senso alto della propria dignità, con tanto di «codice» interiore cui non si può venir meno; il coraggio portato ai limiti estremi; il sacrificio di chi rinuncia alla vita proprio per non venir meno all'onore, sono pane e companatico della cinematografia yankee. E tutto ciò che può dar vigore al mito - diventando «messaggio» di successo nelle sale cinematografiche - viene riscoperto. Da Roma antica al Medioevo cavalleresco e a quello dell'«heroic fantasy». Fino ai «samurai» di Tom Cruise. Certo, non è facile «diventare» giapponesi. E saper rappresentare l'onore del Sol Levante: quel codice di autorità millenaria che lo scrittore Yukio Mishima volle rivendicare suicidandosi, nel novembre del 1970, col rituale del «seppuku». Per protestare contro il Giappone modernizzato e americanizzato: soprattutto disarmato. L'onore ha bisogno delle armi, infatti: battaglie e duelli vedono lame che si incrociano o pistole che fanno fuoco decidendo il destino di chi muore e di chi resta. Come per gli individui, così per i popoli: chi è disarmato o non sa bene impiegare la sua arma soccombe. Ma non è detto che chi è sconfitto sia disonorato. Anzi. Spartani e sudisti si sentivano combattenti dell'onore. «Tutto è perduto, fuorché l'onore», scrisse Francesco I, re di Francia, alla madre Luisa di Savoia dopo la battaglia di Pavia che, nel 1525, lo vide soccombere agli imperiali di Carlo V. Oggi, verrebbe quasi la voglia di parafrasare: «Tutto è perduto, soprattutto l'onore». Ma non sarebbe giusto, perché il «travet» che la domenica si impegna in un giuoco di ruolo, dove si ritrova cavaliere con tutti i diritti e tutti i doveri, per un giorno alla settimana capisce «che cos'é» l'onore. Come accade a chi, leggendo un libro o assistendo a uno spettacolo cinematografico, «avverte» che quel cavaliere o quel samurai «significano» l'onore. E cioè, una disciplina di vita, un'aspirazione, uno stile, una vocazione, la fedeltà a se stessi e alla parola data in un momento cruciale. Quando si tratta di scegliere. E magari si è giovani e non si ha voglia di morire. Nelle testimonianze degli ex-ragazzi di Salò, capita spesso di leggere che «scelsero l'onore». Ora che si sta imparando a scrivere la storia «sine ira et studio», bisognerà riflettere anche su ciò che fu quella paradossale etica «cavalleresca» e «samurai» nel disperato furore della guerra civile e nel presagio della sconfitta.

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