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di DARIO SALVATORI ERA iniziato proprio male il 2003.

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Certo, preferiva defilarsi, perennemente privo di certezze com'era, con quel tono dolce-amaro a cui tutti si erano abituati, preferendo trincerarsi dietro quelle sue canzoni che, prodigiosamente, come specchi davanti all'uomo di oggi, continuavano a commuoverci. L'eleganza, quella inesorabile lucidità, la sottile gentilezza d'animo non gli impedì di esser castigatore, di proporre una sua personalissima elegia del mondo e magari di metter d'accordo don Giussani e Bertinotti, oppure Mina e Ivano Fossati. È toccato proprio ai suoi due ultimi album «La mia generazione ha perso» e «Io non mi sento italiano» scalare le classifiche e diventare n.1 in hit parade. Merito del suo vecchio amico Adriano Celentano (con cui debuttò al «Santa Tecla» di Milano nel 1957) e soprattutto della TV, la tanto odiata, temuta e vilipesa televisione. Fu certamente colpa della TV se nel 1970 Gaber decise di chiudere con la musica leggera, almeno come l'aveva intesa fino a quel momento, e di interrompere bruscamente le apparizioni, le ospitate, i festival e le gare musicali. Da allora solo teatro, tanto teatro, ma a modo suo, fuori dagli schemi, rischiosamente, con quella dannata voglia di cambiarsi dentro destinata a rimanergli appiccicata fino agli ultimi giorni. E la grande stagione del Gaber dei paradossi, degli errori che dovrebbero dare energia, della feroce critica alla borghesia, che prima di esser una classe è una malattia, un'avvilente condizione esistenziale. E' il Gaber fra l'impegnato e il «non so», un dialogo interminabile mai chiuso del tutto. Del resto al fallimento delle ideologie il Gaber autore non ha mai creduto, preferiva affidarsi al mutamento antropologico dell'individuo, totalmente oggetto del mercato. In questi ultimi anni, già così minato nel fisico, colpì per la sua lucidità, per quell'ironia potente e leggera che non lo ha mai abbandonato. Certo, raggiungeva livelli di amarezza profondissimi: «La gente mi piace sempre meno e l'uomo mi sembra arrivato al suo minimo storico di coscienza. Ha ragione Gad Lerner quando scrive: «Gaber è forte, è duro, ma non è cinico. Mai lo sorprenderete a irridere le passioni dei singoli o delle masse in movimento. Al contrario, le canta ogni volta con il tono di un intenso rimpianto. Attribuisce infatti un valore cruciale al senso di appartenenza, alle radici, alle identità comunitarie, e solo grazie a questo appassionato rispetto può frugare poi nelle loro contraddizioni, nella loro crisi: si parli del comunismo o della fede cristiana». Fortunatamente non si parla di ricorrenze o manifestazioni speciali ad un anno dalla morte. Il circo mediatico per ora sembra tacere, forse causa festività, certo il lungo effetto Battisti-De Andrè stavolta sarebbe stato insopportabile. In compenso sono usciti due libri. «La libertà non è star sopra un albero»(Einaudi), una sorta di antologia personale, un cofanetto che è insieme canzoniere-saggio-video e scelta ragionata dei monologhi teatrali con contributi di Gad Lerner, Massimo Bernardini e Vincenzo Mollica. Il secondo libro, «Giorgio Gaber:1958-2003»(Editori Riuniti), di Paolo Jachia, è decisamente trascurabile tanto è infarcito di errori: il sassofonista Paul Desmond diventa Desdemind, Mina viene data per eliminata al Sanremo del 1961 (invece arrivò in finale piazzandosi al quinto posto), lo stesso festival partirebbe dal 1954 (invece iniziò nel 1951), più vari abbagli di collocazione storico-critica.

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