di WALTER MAURO IL NOME di Dino Campana non ha mai corso il rischio dell'oblio.
Ma anche per un fiorire di pubblicazioni, nell'anno che si sta per concludere: la biografia di Gianni Turchetta edita da Feltrinelli, «Un saggio, dieci passeggiate» di Giovanni Cenacchi (Polistampa), «Dino Campana poeta» di Marco Gramigni (Acquaviva). Del resto Campana è stato il vero innovatore della poesia italiana del Novecento, e per giunta con un solo libro, i Canti orfici, il testo/cult della storia letteraria del secolo scorso. Tanto clamore provocò a suo tempo il manoscritto perduto da Soffici e da Papini, ma c'è da aggiungere che in tempi più recenti sono emersi taccuini inediti: su questi e su tutta la produzione in versi di Campana ha lavorato Renato Martinoni, italianista dell'Università svizzera di St. Gallen, per l'ultima pubblicazione sul poeta di Marradi: la ristampa dei Canti Orfici che comprende anche altri frammenti. «Questa pubblicazione rispetta la volontà di Campana — ricorda Martinoni — e tiene conto di ciò che gli studiosi hanno riportato alla luce. Accanto ai testi e al loro commento si fa quindi, per esempio, la storia di un libro tra i più controversi del Novecento italiano, si danno informazioni, meglio se attraverso la voce stessa del loro autore, sulle poesie. Si vuol mettere insomma il lettore in condizione di avvicinare un testo tanto unico quanto straordinario. E la natura stessa del tascabile (Einaudi, pag. 231, 9.50 euro) implica che il libro possa indirizzarsi ad un ampio pubblico di lettori». Martinoni, veniamo al «caso Campana», davvero unico nella nostra storia letteraria: rinnovatore o continuatore? «Per alcuni l'autore dei Canti orfici è semplicemente un continuatore, anche se originale, della tradizione ottocentesca italiana, per altri è un poeta moderno, che attinge al simbolismo europeo; e osservando le vicende biografiche, si fa volentieri il nome di Rimbaud. Per altri ancora è ultramoderno. Comunque è difficile immaginare che la sua poesia sia nata soltanto per un impulso di genio. Purtroppo, tutto sommato, non si sa ancora molto sulla cultura del poeta, sulle sue lettere, sui suoi amori letterari, soprattutto sugli stimoli che si sono poi sciolti nella sua vena poetica. Senza condurre all'estremo le cose, diciamo che Campana resta un caso felicemente anomalo, nella sua capacità di trovare un linguaggio ostinatamente al di fuori di ogni riconoscibile percorso». Ciò vuol dire che per Campana il confronto vita/letteratura è davvero unico: forse ha inciso più del dovuto la malattia mentale? «Intanto occorre dire che se la patologia mentale accompagna il poeta già dall'adolescenza, la follia lo assale quando ha già pubblicato i Canti orfici. Può essere perciò fuorviante una equazione troppo diretta fra poesia e follia. Certo, fu un incompreso: come poteva essere un poeta, un tipo come lui, che girava con un cappello che pareva un pentolino, i pantaloni colorati a fiori, una giacca tutta rattoppata da montanaro, i capelli e la barba incolti? Il pittore Carrà lo invita ad andare a Firenze vestito di pelli di capra. Ma per Dino Campana la vita era poesia e la poesia era la vita. La poesia è stata l'unico vero amore del Mat Campena, il matto Campana come lo chiamava la gente del suo paese...». Sei stato accusato da Sebastiano Vassalli di aver mancato un'occasione per sistemare biograficamente e in modo definitivo questo poeta nel contesto letterario del nostro Novecento. Cosa rispondi? «Vassalli ha il grosso merito di avere riportato l'attenzione su un uomo e su un'opera che erano andati via via cristallizzandosi in un'immagine troppo lontana da quella vera, anzi condizionata da troppi fattori esterni e spuri, insomma a volte anche falsa o falsata. Non solo. Con il bellissimo romanzo La notte della cometa lo scrittore ha ridisegnato una vita, quel