L'alchimista Muti e il regista Ronconi regalano un'opera appassionante
Il Santo nel cuore della città fredda, brumosa, notturna, ha visto lontano alla periferia estrema della metropoli, il cielo squarciato da una folgore abbacinante. Il cielo lampeggia e si fa giallo. È Mosè agli Arcimboldi che riceve e detta le leggi, che spacca d'un tratto il mare, che libera il suo popolo piagato e vittorioso. Si trema e si tripudia alla prima della Scala: la Scala che, armi e bagagli, suona, canta e esulta nel teatro supplente con la disinvoltura e l'orgoglio come se fosse nella mitica sede centrale in rifacimento e nascosta. La musica di Rossini, solenne e astuta, sacrale e elegante, si espande fin nel cielo di Lombardia, percorre con finezza e flessuosità squisite i volti lunari e bistrati delle signore in gran soirée, i cui mariti, fratelli e amanti hanno speso un barcone di soldi, è vero, affinché loro potessero essere presenti all'«evento» melodrammaturgicissimo e rossiniano. Una notazione dell'avvocato del diavolo: come alla tavola della Regina Elisabetta ogni volta ogni cibo ci pare più sapido che al nostro miserando desco, così alla Scala e in specie allo spettacolo inaugurale di stagione, ogni opera pare fatta meglio che se fosse rappresentata in altri teatri italiani. Chi è puro da ogni forma di provincialismo scagli la prima pietra e neghi che l'abito fa il monaco e che un semplice cencio sul divino corpo di una star pare un manto regale. Due i padroni di casa superanfitrioni ad apparecchiare alla bicocca «Moise et Pharaon, ou Le passege de la mer Rouge»: Riccardo Muti e Luca Ronconi, due artisti eccelsi che il mondo eccezionalmente invidia al popolo italiano: il direttore e il regista. L'uno che gli anni, in fuga come Mosè, hanno accresciuto di sensibilità acuta e melodiosa, non più tanto ardore barricariero alla Verdi, ma un amantesco rapporto tra gli impulsi assassini del cuore e le armonie statuarie dell'intelletto. In quest'opera, lui alchimista di sensi, pathos e indefettibile rigore intellettuale. Guai a chi sgarra, nella sua armata strumentale e vocale votata alla morte dal dettame indefettibile della sua bacchetta. E l'altro, il regista d'Italia, che ha tradito con azzeccata fantasia i padri Visconti e Strehler, si scatena qui come un furetto barocco, tutte tentandole per accalappiare e sedurre e tramortire la meravigliosa platea della «premiér», e crea deserti interminati ove per poco il cor non si spaura, e un organo mastodontico proprio al centro del palcoscenico che pare l'ombelico dell'Universo e oltre, e le acque immani e ribollenti schiumano alle stelle e come assai oleate tendine s'aprono e si chiudono all'occorrenza. Come i campioni d'Italia, bianchi scacciati gli egizi, neri invece gli ebrei: tesi e antitesi di un rigore sillogistico la cui sintesi è la vittoria dell'estetica sulla Politica, l'Ideologia e la Storia. Il regista ammalia, lo spettacolo vortica come risucchiato dal vortice della voluttà. Tu in poltrona guardi e godi, ascolti e godi, pensi: ma i costi? Soddisfare il gusto è operazione che non ha prezzo. L'arte costa assai, ma nulla è più utile allo spirito. Il «Mosè» seconda e parigina versione del Mosè napoletano è tra i capolavori del giovane Rossini che qui raggiunge dei vertici assoluti nella storia del teatro in musica: Bellini, Donizetti e Verdi per tacere dei successivi scenderanno dalle vette di questa sublime. Qui il Pesarese sposa la perfezione di una scrittura sinfonico-corale alle delizie e sottigliezze psicologiche di un caso d'amore infelice. L'esistenza non dà risposte definitive: neppure questa musica così affascinante: come una visione di dolcezza che svanisce lasciando il nostro ricordo insieme incantato e malinconico. Il Mosè è interpretato da un possente esagio Ildar Abdrazakov, il Faraone è Erwin Schrott dall'ugola esperta e egittologa per groviglio d'animo e sorte avversa nella lotta contro gli ebrei. Le voci dei due innamorati Barbara Frittoli e Giuseppe Figlianotti e fondono una tenerezza fragrante e intonata, sostenuta dal virtuosismo tecni