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Una donna staccata dal suo Paese, un matrimonio combinato. L'inutilità della lotta al destino ostile accanto all'affermazione della propria autonomia

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solo da principio, quando siamo tutti presi da minuzie, da sciocchezze di ogni sorta, da noi stessi, non avvertiamo la sua mano pesante». Monica Ali, bengalese trentacinquenne al suo esordio con questo romanzo «Sette mari tredici fiumi», ha fatto proprio questo pensiero del narratore russo, così attento alle sorti umane e progressive, da farne materia tenace dei suoi testi, e ha sviluppato una trama fitta e sottile al contempo, in cui confluiscono con struggente partecipazione tutti i poli tematici del flusso migratorio verso l'Occidente, con tutte intatte le scorie di dolore, di pena, di violenza, di squilibrio umano e civile che si trascina dietro la più angosciosa condizione esistenziale di ogni tempo, sotto qualunque pianeta la si osservi. Ad un frangente fra i più drammatici dell'intero romanzo, Nazneen, la protagonista, riceve questo doloroso messaggio della sorella: «Mi fa tremare saperti così lontana. Ricordi le storie che sentivamo da bambine? Cominciavano tutte così: "C'era una volta un principe che viveva in una terra lontana, lontana sette mari e tredici fiumi". È così che penso a te». Assume dunque un significato-simbolo il titolo di questo romanzo ambientato nella Londra dei bengalesi immigrati, una città nella città, dove il processo di integrazione è stato duro e forse impietoso, ma si è realizzato, senza ovviamente che il dolore della lontananza dalle radici potesse del tutto lenire o almeno rendere meno taglienti i colpi del Destino. È infatti quest'ultimo a dominare la storia che racconta Monica, per la prima volta alle prese con la pagina bianca, e così sicura nel navigare per il mare difficile della scrittura. Convinta dunque della vanità della lotta contro il Destino, Nazneen sa bene che l'unico vero soccorso può venirle da se stessa, dal proprio coraggio, in una città nuova e remota, dove dominano vicende e vicissitudini diverse, consuetudini ignote che l'hanno sospinta fino al matrimonio con Chanu Ahmed, un uomo scelto non da lei ma da suo padre, grasso, con una faccia da rana e il doppio dei suoi anni. È finita a Londra, nel gorgo arduo dell'East End, e vive le sue lunghe giornate in una sorta di bunker asfittico, nel nugulo di pettegole vicine bengalesi che ancora più diverso rendono il suo soggiorno londinese. Gran bel personaggio, onore a Monica che l'ha riversato nella trama, non diremo inventato perché chissà quante ce ne saranno, di donne così, in quel quartiere. Il marito Chanu è distratto da ragioni di carriera, non può davvero curare la sua malinconia, scandita dalla monotonia dei giorni, dalle inquietudini del mondo. Esiste soltanto il cordone ombelicale delle lettere della sorella Hasina, fuggita per una passione d'amore appena sedicenne, ma presto trafitta dalla malasorte che le ha procurato un marito manesco che l'ha spinta nell'inferno della prostituzione. Fin quando all'abisso di solitudine in cui Hazneen si trova, arriva un giovane bello, un principe azzurro imprevisto, Karim, strenuo difensore dei veri diritti dei musulmani, un uomo così diverso dal grasso marito da sembrare davvero di un'altra razza. La vita di questa infelice creatura cambia, finalmente c'è un po' di chiarore anche per lei: «Appena rientrata a casa, posò il lavoro prese la borsa e uscì di nuovo per andare in cerca di qualche guarnizione di pizzo. Prima di uscire dal cortile alzò la testa per controllare l'effetto delle cassette di fiori viste da quel punto. Oltre il bordo dei lunghi vasi bianchi facevano capolino alcune foglie verde scuro. Aveva comprato delle violette d'inverno e presto sarebbero fiorite...» Il riverbero di una luce nuova di speranza filtra attraverso il duro reticcio di una esistenza avara e implacabile, lungo la lunga linea grigia dei vent'anni oscuri della comunità bengalese di questo popoloso quartiere di Londra, fra un numero imprecisabile di impedimenti: la tradizione, l'inarrestabile processo glo

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