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di GIAN LUIGI RONDI VODKA LEMON, di Hiner Saleem, con Romik Avinian, Lala Sarkissian, ...

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UN villaggio curdo nell'Armenia ex sovietica, in un inverno tutto neve. A un funerale in campagna viene portato un uomo sul suo letto: per recitare delle preghiere. Non c'è solo quel letto; attorno, ad ogni circostanza, gli abitanti del villaggio siedono all'aperto su sedie portate dalle case e discutono fra loro. Sono gente povera, che esce da povere case da cui, per sopravvivere, tolgono quasi tutto andandolo poi a vendere in mercatini improvvisati ai margini delle strade. Due personaggi più in primo piano: un vedovo anziano che si reca spesso a parlare con la moglie defunta in un cimitero senza recinzioni, perso in mezzo alla neve. E una vedova un po' più giovane che, anche lei, si comporta allo stesso modo. Finiranno per incontrarsi, riuscendo, alla fine, a mettere reciprocamente riparo alle proprie solitudini. Nessun risvolto patetico per dircelo. La vedova, dovendo anche lei vendere qualcosa, porta in strada il suo pianoforte, ma il vedovo la ferma. Insieme, così, si metteranno a suonare quello strumento, lì, tra la neve, mentre le immagini si chiudono su di loro. Una cronaca che è anche, pur nel suo realismo, una elegia. L'ha scritta e poi rappresentata un curdo iracheno, Hiner Saleem, riparato da anni in Francia per sottrarsi alle persecuzioni di Saddam. Facce, gesti, eventi semplici come, appunto, un funerale o un matrimonio o una lite fra due gruppi contrapposti, ma, soprattutto, quei due anziani che parlano con i loro defunti per decidersi solo alla fine a parlare tra loro. Con immagini nitide e perfino ricercate, illuminate dal candore della neve, o dall'interno di case via via sempre più spoglie; con quelle riunioni all'aperto, tutti sulle proprie sedie, affidate sempre con estro a composizioni quasi coreografiche. Mentre gli interpreti, noti ed ignoti, si impongono ad ogni pagina con sincerità assoluta. Un film affascinante.

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