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Giorgione, la bella pittura è simbolo

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Tuttavia la mostra che ne è derivata, presso le Gallerie dell'Accademia di Venezia (fino al 22 febbraio 2004, quindi, da marzo a giugno, al Kunsthistorisches Museum di Vienna), «Giorgione - Le meraviglie dell'arte» (catalogo Marsilio), offre al pubblico una selezione di quasi un terzo della produzione pittorica di uno dei più sfuggenti e suggestivi protagonisti dell'intera Storia dell'Arte occidentale. Il computo degli autografi certi di Giorgio da Castelfranco (1478 c. - 1510), detto «Giorgione» (dopo la verifica partita dalla rassegna monografica del 1955, sempre a Venezia), non supera il numero di 25 opere, con un margine di 3-4 attribuzioni plausibili e altrettanti quadri lasciati non finiti alla sua precoce morte e completati dal suo «creato» Tiziano (fra questi il Concerto campestre del Louvre di Parigi, il Concerto di Palazzo Pitti a Firenze e il Cristo morto sorretto da un angelo della coll. Johnson di Philadelphia). Nell'ottimo allestimento si trovano, quindi, raccolti otto dipinti e l'unico disegno (una sanguigna del Museo Boijmans van Beuningen di Rotterdam, con «Elia nutrito da un corvo con lo sfondo delle mura della città di Zarpat», ispirate da quelle di Montagnana) assolutamente sicuri, nonché un'attribuzione, per così dire più fortunata, il «Cristo portacroce» della Scuola di San Rocco (in realtà un non finito di Tiziano). Giorgione è un artista simbolo dell'Umanesimo magico di Venezia. «Dilettante» (nel senso che allora si dava a questo termine) di genio pare che la sua prerogativa artistica fosse rivolta alla musica: è descritto come un virtuoso del liuto, cosa che gli valeva i favori della piccola corte asolana di Caterina Cornaro, esule da Cipro, e in pittura gli aveva evitato un tirocinio dell'accademia, suggestionato dalla libertà atmosferica dell'ultimo periodo di Giovanni Bellini. Vale a dire di quel vecchio sublime che lo ebbe per qualche tempo tra i frequentatori della sua bottega. Ma per Giorgione dové avere un effetto catalizzante anche la visione del chiaroscuro sfumato di Leonardo, divenuto l'esca per una rappresentazione del mondo circostante come idillio tra creato e Creatore. Quel creato che per lui (forse ebreo convertito — tanto è vero che non se ne conosce il vero cognome) era lo specchio biblico di Dio-Creatore. Colori brillanti, azzurri-indaco, verdi malva e smeraldo, lacche scarlatte, brume esalate dalle acqua, folgori, sono il contesto cromatico che la realtà ambientale veneta imponeva alla sua sensibilità. Il senso della vita che fluiva nell'incanto delle donne, il piacere della musica, il rebus di narrazioni figurative dove il coinvolgimento del fruitore è parte attiva dell'insieme. Per cui è a lui che spetta scoprirne i significati secondo la «poetica» aristotelica che sembra avvolgere la psicologia di chi si trova di fronte ai dipinti metaforici, agl'idilli misteriosi che la critica ha cercato invano di decodificare. Cosa vuole rappresentare la Tempesta? (Venezia, Gallerie dell'Accademia), che poi non s'intitola nemmeno così? Perché la Vecchia (Venezia, Gallerie dell'Accademia) reca il motto «Col Tempo»? È solo un'allusione anagrafica? Perché i Tre filosofi (Vienna, Kunsthistorisches Museum nella foto), sono così chiamati dal 1525, sebbene quello vecchio, a destra, in radiografia mostri i raggi sapienziali di Mosé? Sono i Re Magi zoroastriani (uno è il negro Melchiorre?)? A chi alludono le fronde d'alloro (lauro) sul fondo di un ritratto femminile che, conseguentemente, è stato intitolato Laura? (Vienna, Kunsthistorisches Museum): a una cortigiana di tale nome o a un emblema di «Vanitas Vanitatum), in quanto riconducibili alla metamorfosi di Dafne che fugge di fronte al desiderio amoroso di Apollo? Domande senza risposte, oppure con tante risposte che alla fine si annullano. Una magia astratta e acr

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