di WALTER MAURO SI SCHERZAVA, e si ironizzava, con Michele Prisco su quei titoli dei suoi romanzi ...
Ecco tracciata una biografia interiore dello scrittore di Torre Annunziata, napoletano di adozione, nella quale l'intervento psicologico opera e agisce molto più profondamente di quanto non si possa dedurre o immaginare dal gioco dei complementi. Probabilmente un rifugio, una postazione, quei titoli, come gli altri altrettanto emblematici, di un'oggettistica da preservare gelosamente, su cui la provincia, quella «addormentata» di fine anni Quaranta, irrompe dilangando e sospirando l'arte compositiva di un narratore ineguagliabile verso approdi espressivi di rara corposità ed efficacia. Insomma, per ritrovare una prosa così stilisticamente perfetta, bisogno di andare a scomodare Giorgio Bassani, e da questo duplice magistero emergerà una ipotetica topografia di un linguaggio caldo e tornito, essenziale e fascinoso, e non per concause di delirio estetico, bensì per palpitare di condizioni umane. All'interno di un simile ripiano espressivo, ecco Prisco situare le figure di una scacchiera multiforme e variegata, sempre o quasi ricavato da una indagine accurata e precisa su un determinato ambiente della provincia campana, la borghesia, colta al suo declino, nelle sue malformazioni congenite, eppure mai descritta con quel compiacimento descrittivo che, per esempio, ritroviamo così di frequente nella letteratura di Alberto Moravia. Il che non vuol dire affatto che Prisco non si abbandonasse ad una decisa sensualità, ma quel delirio della materia si offriva nei suoi testi con una naturalezza e una discrezione che ancor più accentuavano l'intervento formale, il piacere del testo, avrebbe detto ancora una volta Roland Barthes. Da una tale condizione, balzano in primo piano biografie dolenti e squarciate, le cinque sorelle de Gli eredi del vento, l'Andrea Cascone dei Figli difficili, con quelle umbratili interiezioni kafkiane che aggiungono dolore a dolore, traumi nuovi su antiche ferite, l'Immatella di Fuochi a mare, un diminutivo abbreviato di Immacolatella che recupera a piene mani una freschezza infantile che duramente urta contro l'aggressività della condizioner dell'uomo, l'Aurora de La dama di piazza, che si compiace di furtivi amori con Lillino senza che tutto questo la disturbi più di tanto nella scalata dei gradini sociali, il Fabrizio di Una spirale di nebbia, così ambiguo e reticente da consentire che l'azione romanzesca si colori delle tinte del poliziesco: e si potrebbe continuare nell'analisi di personaggi memorabili, sempre in bilico fra azione e finzione, incastrati in uno scandaglio dei sentimenti e dei comportamenti che non lascia respiro, nella continuità delle percezioni. Attento osservatore del romanzo naturalista francese (un capo d'accusa che respingeva con furia, come quell'etichetta di scrittore «meridionale»...), Michele Prisco ha saputo trasformarlo del tutto mediante l'intervento totalizzante dell'io profondo, della continuità esistenziale all'interno di una società così facilmente proiettata verso l'esteriorità dei movimenti, delle reazioni, delle luci e delle ombre che caratterizzavano il nostro vitale quotidiano. E tutto questo accade nei suoi romanzi senza minimamente emarginare la liricità del paesaggio, non per accentuare tonalità poetiche già presenti nei fatti, negli scontri/incontri fra i personaggi, bensì per obbedire ad una sorta di inscindibile concatenazione di eventi che proprio nella forza primordia della natura reperiscono la loro ragion d'essere. Si profila così la determinazione del rapporto fra decadenza morale e violazione delle più elementari regole dell'esistere, un modulo