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di GINO AGNESE MICHELE Prisco, narratore.

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Tanto che, anche nella conversazione, la sua vena si ravvolgeva e si dispiegava garbata, come se cercasse una trama, sempre giungendo a qualche sia pur piccolo approdo di pacata meraviglia. Don Michele spesso faceva cadere delle parole francesi nei discorsi dal sommesso profilo che si aprivano talora al sorriso dell'ironia a tavola o durante i viaggi in automobile tra Potenza e Napoli, tornando dal premio Basilicata con il ricordo dell'Aglianico rosso e di nuove prove letterarie. Anche in questo egli era il rovescio dell'altro grande narratore napoletano del secondo Novecento, Domenico Rea, che invece aveva una conversazione scintillante, con picchi improvvisi di esclamativa genialità. La cifra di Prisco consisteva invece nella continuità architettonica del dire e dello scrivere. È di questi giorni l'uscita d'una raccolta d'inediti racconti di Michele Prisco, ma egli tenne a battesimo l'ultimo suo libro nel 1999. Lo chiamò «Gli altri», apparve presso Rizzoli e fu un romanzo costruito attorno a due personaggi: Amelia Jandoli, una signorina di mezza età alla quale sembrava certo non dovesse capitare nella vita nulla di nuovo, e un giovane, Felice, che entrò nella vita di lei per una combinazione pirandelliana. Fu a lungo in dubbio riguardo a quel titolo, mi mise a parte delle sue perplessità e francamente gli confessai che non mi piaceva. «Fossi in te, caro Michele, il libro lo chiamerei Felice. È il nome di uno dei due protagonisti ed è anche un bell'aggettivo». «Ci penserò», mi rispose; e mi confidò che non ne poteva più del curioso destino che aveva accompagnato i titoli dei suoi romanzi: un destino birbante che lo aveva consegnato, come incolpevole prigioniero, agli articoli determinativi e ai genitivi. Non ci avevo fatto caso, ma davvero è in qualche misura romanzesca la sorte consonante dei titoli di quasi tutti i romanzi di Prisco: "Gli eredi del vento, La dama di piazza, Le parole del silenzio, I giorni della conchiglia, Il pellicano di pietra: e non solo. Rievocano, quei titoli, il tempo e le circostanze in cui essi giunsero a definizione. E il suo dire, ricordo bene, si faceva racconto, testimonianza dello stupore lieve, ma anche un po' inquietante di un'avventura certamente minore, ma distesa nei decenni: l'avventura di uno scrittore al quale accadde d'impigliarsi inevitabilmente in uno stesso schema espressivo: che appunto cominciava con l'articolo determinativo e finiva col caso genitivo. Con «Gli altri», Prisco forzò la porta della magica prigione e si offrì al suo pubblico con un'insegna insolita. E quel cambiamento - io credo - lo rinsaldò nel silenzioso orgoglio che riservò negli ultimi anni alla critica che, alquanto, passò sotto silenzio i suoi libri, spicciativamente annoverati ai modi della narrativa ottocentesca. In realtà, soprattutto ultimamente Michele Prisco scontò la sua estraneità a tutte le congreghe, cominciando da quelle che dettano legge (ancora?) nella repubblica delle lettere. Di sicuro innumerevoli lettori ebbero per compagni i suoi libri e furono condotti da lui, come per mano, negli scenari e nei casi consueti e straordinari d'una borghesia marginale, alla quale, forse, gli italiani debbono qualcuna delle loro virtù.

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