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Gergo e dialetto con termini che hanno spesso un doppio significato «È come avere una tavolozza piena di colori»

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Un bel traguardo. Dieci libri a base di echi, vibrazioni e sfumature dialettali, ma anche giallistica, narrativa, lessicografia, sempre con una prosa ricca e ad effetto, in grado di esaltare l'attività di scrittore ormai apprezzato non soltanto per le sue canzoni. La sua esperienza, infatti, si sta configurando come uno dei casi più originali e suggestivi della scena letteraria italiana dell'ultimo decennio. «Cittanova blues» (Mondadori) è il canto di Guccini nei confronti di una città, Bologna, amata visceralmente, anche se ridimensionata rispetto agli anni d'oro, cioè quelli descritti nel libro, vissuta all'interno di un mondo che non c'è più. Forse proprio per questo bisognoso di esser narrato con uno spirito tutt'altro che provinciale, semmai liberatorio, come quello del blues dei neri d'America nei paesaggi di New Orleans e di tutto lo stato della Louisiana, a cui l'opera fa riferimento. Modenese, 63 anni, Francesco Guccini ama parlare di quella vita picaresca dei musicisti della sua generazione, dei ragazzi e delle ragazze di allora. Allora Guccini un nuovo e vigoroso libro. Ormai siamo uno all'anno... «No, no, per carità. Non è che ci sia una velocità da rispettare. Le cose vengono quando vengono». Lei nei precedenti libri è passato dal pavanese al modenese, ora arriva al bolognese, anche se il periodo descritto è quello degli anni Sessanta. Perché? A Bologna dopo quegli anni non è successo nulla? «Credo di sì. C'è sempre da raccontare. Diciamo che per economia narrativa ho scelto quel periodo. Sono gli anni della formazione, della gioventù, delle esperienze insostituibili. Lo era allora, credo che lo sia anche adesso». Le sue canzoni nascono in italiano, i libri in dialetto. Perché? «Per la precisione vorrei ribadire che io uso il sottofondo dialettale italianizzato. Con molto gergo. È diverso». Alla fine del libro, in appendice, lei offre un glossario, viste anche le difficoltà di lettura per un non bolognese. Senza contare che molti termini hanno un doppio significato. «Nel gergo succede spesso. È la sua forza. C'è uno scivolamento del significato. Ma questa è la bellezza: avere una tavolozza con molti più colori». Come nasce questa sua passione di indagatore minuzioso della lingua? Le canzoni hanno qualcosa a che vedere? «È diverso. Le canzoni sono più sociali, semmai personali. Un libro offre un respiro più ampio, modellato dal lavoro e dai riti della famiglia e della comunità, a cui mi sono ispirato. Mi piace scrutare certe goffaggini, sia pure nell'inerme euforia della giovinezza». Lei riesce a parlare del passato senza essere malinconico, revivalista. È un metodo preciso? «Non credo. Il revival non mi è mai piaciuto, la malinconia credo di frequentarla allegramente». Nel libro si parla di certe passioni sportive che non conoscevamo. La ricordavamo tifoso della Pistoiese, che nel calcio non se la passa troppo bene, ma ci risulta inedita la sua passione per il basket. Nel libro cita Calebotta e Canna, che arrivarono alla Virtus Bologna nel 1953. Si è dimenticato Alesini, proveniente da Varese, che di quella formazione era il top score... «Non sono mai stato un tifoso di basket. Peraltro a Modena era più popolare la pallavolo. No, Calebotta e Canna erano frequentazioni di vacanze estive». Lei dedica molte pagine ai ricordi di naja: un servizio militare che in qualche modo modificò la sua carriera. È per questo che non entrò a far parte dell'Equipe 84? «La richiesta era arrivata prima. Tutti i musicisti modenesi ruotavano intorno a tre-quattro formazioni: Hurricanes, Marinos, Giovani Leoni, Gatti. Ne facevo parte come i futuri componenti dell'Equipe 84. Fu Victor Sogliani (a cui il libro è idealmente dedicato ndr) a volermi, ma io, dopo il servizio militare, volevo riprendere gli studi e laurearmi. Fu proprio Victor, scomparso prematuramen

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