di DARIO ANTISERI L'OCCIDENTE non è il paradiso; ma è certo che non è nemmeno l'inferno.
Il de contemptu mundi è, infatti, un lamento che, come un refrain, ha risuonato in ogni epoca - e che ai nostri giorni trova i suoi sostenitori soprattutto in intellettuali del mondo occidentale: Europa e America. L'Occidente, insomma, viene spesso dipinto come un inferno dove la logica del profitto schiaccerebbe i più deboli e sfortunati a tutto vantaggio dei ricchi sfruttatori; un inferno caratterizzato da quel neocolonialismo in cui consisterebbe la globalizzazione - un fenomeno destinato a cancellare ogni tradizione locale e a rimpiazzarla con quell'orrendo tossico mentale e morale costituito dal pensiero unico. In breve, l'Occidente significa capitalismo e America: quindi va combattuto. È questo il messaggio dei «neoapocalittici». Non è qui il caso di sottovalutare i problemi spesso gravi che i Paesi occidentali si trovano a fronteggiare, come, per esempio, quelli connessi al degrado ambientale o quella folla di questioni legate ai flussi migratori. L'Occidente non è certamente il paradiso. Ma altrettanto certamente non è neppure quell'inferno descrittoci dai tanti «apocalittici». Con ogni verosimiglianza, in nessuna epoca i diritti individuali sono stati garantiti come lo sono ai nostri giorni nei Paesi occidentali, e mai come oggi il benessere è stato più diffuso di quanto lo è in Occidente. L'Occidente - ha scritto Karl Popper - è la migliore società perché la più capace di autocorreggersi. Il «Male» dell'Occidente viene, in ogni caso, visto nel capitalismo. Sennonché sarebbe davvero ora che i detrattori dell'economia di mercato comprendessero che senza di questa sprofonderemmo nella più nera indigenza. E vi è di più, giacchè economie di mercato e stato di diritto vivono e muoiono insieme. Le libertà individuali sono destinate a scomparire laddove lo Stato o qualche privato detenessero tutti i mezzi. È Hayek ad aver ammonito che «chi possiede tutti i mezzi stabilisce tutti i fini». L'economia di mercato è l'esposizione pubblica di soluzioni di problemi - di soluzioni nuove per vecchi problemi, di soluzioni di nuovi e magari prima inimmaginabili problemi. Il «mercato» con il suo principio di concorrenza - è un processo di scoperta e di invenzione; arricchisce il mondo; mette a disposizione «beni» senza obbligare nessuno a usufruirne; amplia, quindi, la possibilità di scelta e la nostra libertà; è uno strumento di una sempre migliore conoscenza e di una sempre migliore convivenza tra i popoli. La globalizzazione economica intrinsecamente connessa con la globalizzazione dell'informazione, offre nuove opportunità, anche se ci pone di fronte a nuove sfide e nuovi rischi. E il rischio più grande, a mio avviso, è che un mercato globale non venga simultaneamente regolato da un diritto globale: un sistema legale internazionale in espansione che garantisca i diritti umani e che vigili contro ogni tentativo di soffocare la concorrenza. E perché la globalizzazione non si trasformi in un disumano incontro del forte con in debole è necessario non che il forte si indebolisca ma che il debole diventi forte. E chi è oggi il debole? Il debole è colui che non sa e non può: che non sa perché privo di conoscenze scientifiche e tecnologiche; che non può perché anche quando avesse le necessarie conoscenze per progettare e costruire beni e servizi, è oppresso da uno Stato che vieta la libertà d'impresa e di commercio. Ed ecco, allora, la sfida davvero epocale dell'Occidente: è il tempo di «esportare», di globalizzare il meglio di sé - i diritti umani, lo stato di diritto e la conoscenza scientifica e tecnologica. Certo, si tratta di un processo non facile, pur se qualcosa di interessante, in questa direzione, si è già fatto e si sta facendo, tramite, per esempio, trattati commerciali che vengono stipulati a condizione che i prodotti non vengano dal lavoro minorile, che non si mandi in rovina l'ambiente naturale, e così via. È questa la via impervia che esige etica e intelligenza, lungimiranza. Da u