Malinconico tramonto di un grande statista

Mola dedica le prime pagine del libro, assai accurato e informato, che ha scritto sull'uomo di Dronero definendolo lo «statista della nuova Italia». Per entrare nel cuore della questione è sufficiente dire che a Montecitorio la legislatura, quella iniziata nel 1919, durò soltanto fino al 1921 e che essa non risolse, anzi aggravò, l'ingovernabilità della Camera. Le nuove elezioni le volle proprio Giolitti con la speranza che la situazione migliorasse, ma il vecchio statista aveva fatto male i propri conti, sebbene, detenendo com'era sua consuetudine il ministero dell'Interno, potesse servirsi del sottogoverno ed esercitare sui prefetti le usuali pressioni. Con le elezioni del '21 Benito Mussolini, dopo una prima prova fallita, entrò in Montecitorio alla testa di trentacinque deputati fascisti. Nell'affermazione elettorale dei fascisti, che si erano presentati nel «Blocco nazionale», aveva avuto un certo peso il sostegno di Giolitti, il quale in tal maniera gli pagava la cambiale antidannunziana. Bisognava formare un nuovo governo, e Giolitti era ancora sulla cresta dell'onda. Il suo nome era stato fatto al re dai gruppi parlamentari. Lo statista, ormai settantenne, ancora sperava di poter dominare le Camere facendo concessioni a destra e a sinistra. Sotto di lui si era potuto parlare di monarchia socialista, ma allora il paese voleva qualcosa di più. «La repubblica è nell'aria», si diceva in giro. Arturo Labriola osservava che la monarchia si sarebbe presto ritrovata a svolgere un più modesto ruolo di «presidenza ereditaria». Ora il vecchio di Dronero, che quasi insperatamente era riapparso alla ribalta dopo un'eclissi di sei anni, si muoveva per una molteplicità di ragioni, per l'esigenza di ascoltare la voce dei tempi nuovi, per procedere a una riforma democratica, ma anche per una tardiva rivincita personale nei confronti del re Vittorio Emanuele III che aveva fatto di testa sua nell'attaccare l'Austria. Per le simpatie sempre dimostrate nei confronti delle sinistre, i nazionalisti lo chiamarono il «bolscevico dell'Annunziata», essendo egli insignito di quel Collare che lo aveva reso «cugino» del re. Giolitti ormai non aveva più i famosi trecento deputati ai suoi ordini, ma soltanto una maggioranza fragile e risicata che lo indusse alle dimissioni. Sempre convinto di poter continuare a pesare sulla scena politica per interposta persona, indicò a succedergli un suo candidato, il riformista Ivanoe Bonomi. Ma le cose sarebbero dovute andare in maniera ben diversa: una maniera che si chiamerà Benito Mussolini. Aldo A. Mola, «Giolitti» Mondadori 547 pagine, 19 euro