«Troppo casta quella notte con Hemingway»
Fernanda Pivano al Grinzane Cinema Festival parla dello scrittore
Un libro che divenne film, pièce teatrale e fiction televisiva. Quale altro luogo migliore per sottolineare i legami tra letteratura e grande schermo? Il Festival Grinzane Cinema lo ha scelto per inaugurare la sua prima edizione. Molti gli appuntamenti della manifestazione, con uno speciale approfondimento dedicato ad Ernest Hemingway, in particolare al suo romanzo «Addio alle armi». Dopo la proiezione della pellicola, restaurata, diretta da Frank Borzage, esperti di letteratura e cinema hanno parlato di come lo scrittore americano vivesse questo rapporto. Più significativo di tutti, però, l'intervento di Fernanda Pivano. Lei era sua amica, e come tale ne ha parlato. Non ha raccontato solo il mito, benché Hemingway lo fosse anche ai suoi occhi, ma ha descritto l'uomo, con le sue debolezze e le sue contraddizioni. Racconta, ancora emozionandosi di come lo ha conosciuto: «Mi invitò a Cortina nel 1948, perché aveva saputo che ero stata arrestata dai tedeschi, durante la guerra per aver tradotto un suo libro, censurato in Italia. Era "Addio alle armi". Per me era un mito, così quando vidi la cartolina la buttai via. Pensavo ad uno scherzo. Mi resi conto che non lo era quando ricevetti la seconda. Volai da lui, si fa per dire. Lo raggiunsi su un treno a carbone, da cui scesi tutta nera. Arrivai dov'era lui, e lo vidi seduto ad una tavolata con gli amici, perché a lui piaceva mangiare. Si alzò e mi venne incontro a braccia aperte. Da allora mi chiamò la sua piccola Giovanna d'Arco. Passammo la notte insieme a parlare dei tedeschi e della guerra. Parlammo e basta, purtroppo... Era bellissimo!». Le donne impazzivano per Hemingway, ma ci fu una donna che lui amò veramente? Secondo Fernanda Pivano il grande amore della sua vita fu la prima moglie. «Io credo che lui abbia amato Hadley Richardson per tutta la vita, la madre del suo primo figlio. Tant'è che anche quando scrisse "Festa mobile", la chiamava continuamente per chiederle particolari che lui non ricordava. Inoltre, credo che i suoi romanzi più intensi siano questo e "Fiesta", legati al periodo vissuto insieme. Dopo la loro separazione, lui visse anche un forte senso di colpa nei suoi confronti. Credo non sia mai riuscito a dimenticarla, nonostante le innumerevoli donne che sono passate nella sua vita. Lui, mi aveva anche detto che nel testamento aveva lasciato i diritti d'autore di "Fiesta", a Jack, il suo primo figlio». Di Hemingway si è detto di tutto e di più. È stato sottolineato il suo ateismo, il gusto per l'avventura, l'amore per la caccia. Quanto c'è di vero in tutto questo? «Poco. Hemingway non era affatto ateo. Frequentava la chiesa. Certo non era un bigotto, ma di sicuro non era ateo. In quanto, alla passione per la caccia, non era così come è stato raccontato. A lui piaceva vedere le situazioni. Come la caccia nella botte, gli piaceva guardare l'ambiente che lo circondava, ma non era il cacciatore sanguinario. Non sparava, gli portavano le anatre uccise, solo perché potesse mostrarle ai giornalisti che lo aspettavano. In un certo senso doveva tenere in piedi il personaggio che aveva costruito. Per quanto riguarda l'avventura, era un altro discorso, gli piacevano le emozioni forti, e quindi si misurava, possibilmente alla pari, con le forze della natura». Per scrivere viveva delle emozioni, e questo gli bastava, oppure prendeva anche spunto dalla cronaca locale dei paesi in cui ambientava le sue storie. «Prendeva spunto da tutto . Anche dalle notizie di cronaca». Ed è verosimile che per costruire i personaggi di Frederick Henry e di Rinaldi, protagonisti di «Addio alle armi», abbia preso spunto da una notizia di cronaca apparsa su un noto quotidiano torinese del 1915, in cui si racconta di un gabbamondo, originario di Gaeta, ferito a Montenero e promosso ufficiale per meriti di guerra, risultò anche che l'uomo prima era stato soldato e poi milite della Croce Rossa.