DOPO IL SUCCESSO IN RUSSIA
«Napoli Hotel Excelsior», che in ottobre è andato in scena con successo a San Pietroburgo, è la rappresentazione, in chiave grottesca e in stile di musical, di un patch-work livido e sferzante degli esclusi, personaggi raccontati con dolore e rigore drammaturgico da Raffaele Viviani in diversi suoi testi e riuniti, invece, in un'unica delirante passerella dall'originale invenzione dell'attore e regista Tato Russo. Nei lavori originari, «Via Partenope» e «La musica dei ciechi», Viviani aveva separato dalle vetrate decò del mitico Hotel Excelsior del lungomare napoletano la molle nobiltà e la borghesia rampante di Napoli, riunite in festa, dal gruppo di depressi vetturini che li attendevano in strada per riportarli a casa sulle loro lussuose carrozze. Russo, invece, ha voluto usare il piazzale antistante l'albergo napoletano come «vetrina» appannata e miserabile in cui sono in mostra scugnizzi, ubriachi, finti maghi e improvvisati cantanti di strada, e un'orchestrina di musicisti ciechi: emarginati, pronti a tutto, fino all'accattonaggio, pur di strappare una moneta. Russo rievoca i fantasmi della belle epoque di Viviani non certo per cancellare l'indelebile spirito dell'impegno civile che il gigantesco autore napoletano seppe infondere nella sua vasta opera teatrale, ma per arricchirlo di connotazioni più aderenti alla realtà attuale. Emarginati, sì, esclusi, certamente, ma anche i vinti di una battaglia che non hanno mai voluto combattere, anche i cialtroni compiaciuti di sbarcare il lunario a spese del primo che incontrano per strada, orfani di dignità sociale, prima ancora che vittime del cinico sfruttamento delle classe dominanti. È qui la differenza palese tra gli «esclusi» di Viviani e i «pezzenti», miserabili prima che poveri, di Russo. Viviani amava profondamente quei personaggi che, a quel tempo, non avevano scelta, e sottolineava poeticamente l'urgente necessità di un riscatto politico. Russo, invece, fa i conti con il suo tempo, con la progressiva eliminazione della differenza di classe, e non può tacere il suo orrore, e persino il suo disgusto, per questi personaggi che nella loro viltà esistenziale e nel conveniente abbandono socio-culturale si compiacciono di essere «sporchi, brutti e cattivi». È un giudizio duro, ma non infondato, che Tato Russo rende ancora più duro con le sue magistrali e impietose interpretazioni che come carta vetrata strappano la pelle a «signori» intontiti dalla vuotaggine del loro perverso egoismo e a straccioni esaltati da un odio feroce e indistinto.