Ebreo errante. Nel buio interiore

A scorrere le circa seicento pagine dell'opera, viene facile poter dire che molti blocchi descrittivi risultano marginali e ininfluenti, ma tutto questo processo di apertura dilagante, a macchia d'olio, nella logica dello sviluppo narrativo, presenta a sua volta anche qualche prospettiva di funzionalità, soprattutto perché, se Dio vuole, ci troviamo di fronte ad un scrittore che lavora intensamente di fantasia e di immaginazione senza preoccuparsi troppo della credibilità del vero e del reale. Non soltanto: propone a ripetizione il cosiddetto romanzo ciclico, con ingredienti nuovi e originali che nulla o poco hanno a che vedere con antiche invenzioni in bilico fra il vero e l'invenzione: «I Gursky sono un prodotto della mia fantasia, ma non completamente — ha dichiarato — ho però scandagliato le vite e le testimonianze di alcuni membri della sfortunata spedizione partita per circumnavigare il globo attraverso il passaggio a nord-ovest, e poi ho raccontato questa storia a modo mio». Il quale ultimo consiste nel restituire ai personaggi una parvenza di verità, per poi svariare lungo i sentieri suggestivi dell'irreale attraverso una geografia della interiorità dell'io, così ricca di viuzze, di crocicchi, di spazi insospettabili. Allontanatosi per un momento dalla descrizione dell'universo ebraico di St. Urban Street, Richler è andato a ficcare il naso in due secoli di vita e di storia e lungo due sponde dell'Atlantico, popolato da cinque generazioni di una dinastia ebraica che ogni cosa e qualsiasi azione interpreta in modo eccezionale e dilatato, soprattutto perché può consentirsi lusso, vitalità, vigore, insomma gusto del piacere sotto qualsiasi forma e aspetto venga a manifestarsi. Ma le magagne, le macchie, si nascondono ovunque, meglio ancora se si mimetizzano dietro il benessere, e il marcio è proprio nella figura del protagonista del romanzo, Solomon, di cognome Gursky, che sembra toccato dall'eternità, essendo «stato qui», come suona il titolo del romanzo sempre e ovunque, in ogni momento/chiave di un doppio secolo che ne ha vissuti di momenti cruciali. Richler descrive parecchi di questi frangenti del ventesimo secolo, la Lunga Marcia, l'ultima telefonata di Marilyn, le deposizioni del Watergate, il raid di Entebbe. Vicende che appartengono alla storia o alla mondanità ma che nella sequenza degli anni hanno rappresentato qualcosa che ha contribuito a cambiare il volto del pianeta e dell'uomo. Nessun biografo si occuperebbe di questo contraddittorio personaggio che ne combina di tutti i colori, ma ha la fortuna di imbattersi nel più improbabile degli uomini, Moses Berger, un ex ragazzo-prodigio che è stato minato nel carattere e nei moduli di vita dalle troppe bevute, ma soprattutto da una sorta di maniacalità che lo concentra interamente sulla dinastia dei Gursky, e assume anche atteggiamenti censori nei confronti della società che circonda il personaggio: «In giro circolano troppe bugie, bisognerebbe assumere qualcuno che ascolti la verità da me e scriva la mia autobiografia...». Lo sdoppiamento del personaggio nel referente che racconta e il protagonista che dà via libera al suo passato e al suo presente - con un futuro del tutto ignorato - è in atto, e accompagna il lettore lungo l'intero arco romanzesco, sotto un titolo che parrebbe voler obbedire alla logica dell'indagine poliziesca. Il confronto con la realtà di quanto accade nella vita, e perciò fa parte del nostro fardello biografico, svaria continuamente lungo sentieri e crinali che paiono irreali e fantastici, ma poi diventano veri e autentici, poiché Richler si preoccupa sempre di non smarrire il senso della vita e dei d