Quando negli studi di Cinecittà volle filmare la nascita della luce
È una delle innumerevoli iniziative in occasione del decennale della morte del regista, il 31 ottobre. Fra i relatori Gianfranco Angelucci, scrittore e sceneggiatore del film «Intervista». Anticipiamo una parte della sua testimonianza. di GIANFRANCO ANGELUCCI LA SFIDA DI Fellini era quella di girare un «film in diretta», cioè riprendere il film nel momento stesso in cui viene realizzato. Tanto che anche la sceneggiatura operativa - non quella letteraria - richiedeva di essere redatta quasi un giorno per l'altro, o addirittura sul set. A un certo punto Federico decise di voler fotografare persino la luce e che quell'imprendibile elemento immateriale che sostanzia il cinema, diventasse materia di racconto. «Il film si scrive con la luce, lo stile si esprime con la luce». E così avevamo immaginato una breve situazione in cui unica immagine a impressionare la pellicola fosse la luce nella sua manifestazione. Una sera, nel Teatro 5 completamente vuoto (un ettaro di superficie in fuga allo sguardo), era stato tentato l'esperimento. Per cogliere quella fibrillazione magica e incantatrice con cui la luce si rivela nel pulviscolo atmosferico, Fellini si era inventato di far piovere da una torretta alta sei metri, direttamente dentro il raggio di un proiettore, un bel sacchetto di limatura d'oro. Quella specie di polvere impalpabile e preziosa avrebbe riprodotto lo scintillio, la vibrante luminescenza del fenomeno fisico come antitesi dell'oscurità, come interruzione delle tenebre. Tonino Delli Colli, il direttore della fotografia, sembrava un po' restio all'idea. Se ne stava seduto su un cubo, quasi opponendo la sua inerzia massiccia all'incomprensibile capriccio: «Ah Federì, ma che dovemo fa'?, che dobbiamo ripijà?». Poi si iniziò a girare: il pulviscolo atmosferico brillava nel fascio abbagliante di un primo proiettore, poi di un secondo, un terzo, un quarto, tutti quanti, tutti assieme: era la luce, liquida come un fiume di lava, magma da paradiso dantesco. Eccola dunque la creazione del mondo! Un fascio obliquo che solcava le tenebre, materializzato da fumi d'incenso e, dentro, un vorticare di pagliuzze d'oro che l'attrezzista lasciava cadere con studiata continuità; quindi, in una mirabolante successione, dai ponti, dalle torrette, dal cielo, si accendevano in sequenza giganteschi proiettori, file di skypans, batterie di parabole al quarzo sotto le capriate, e tutte le possibili lampade, e torce, e inkidinki, e i bruti e le scariche, l'intero repertorio di fototecnica applicato alle riprese cinematografiche. Il chiarore sconfiggeva le ombre, aureolava ogni più riposto angolo dell'immenso teatro; e la macchina da presa, solitaria e microscopica in quell'antro da ciclopi, ronzava imperturbabile registrando l'evento. Fiat lux! Era nato il cinema nel suo presupposto più segreto. «La luce è la materia del film, quindi del cinema. La luce è ideologia, sentimento, colore, tono, profondità, atmosfera, racconto». Era nata una sequenza emozionante e unica, forse la dichiarazione più sincera che il regista poteva fare sul proprio lavoro e su se stesso. Nel montaggio finale del film che si chiamò poi «Intervista (1987, Premio Speciale della Giuria a Cannes e Primo Premio al Festival di Mosca) rimase ben poco di quella ripresa. Ma esiste una fotografia in cui Federico è ritratto da solo, in quell'ambiente smisurato, investito da un raggio di luce; la sua figura è di spalle, col cappottone, la sciarpa, i capelli arruffati sotto la falda della cloche. «Il Teatro 5 di Cinecittà è il posto ideale. L'emozione assoluta, da brivido, da estasi, è quella che provo di fronte al teatro vuoto, uno spazio da riempire, un mondo da creare».