di ALESSANDRO CENSI «LA LETTERATURA - dice Mario Rigoni Stern guardando oltre la finestra ...
Ci sono alberi grandi e bellissimi che superano gli altri: si chiamano Omero, Tucidide, Virgilio, Dante, Boccaccio, Cervantes, Shakespeare, Leopardi. Dove la foresta alpina si dirada e la montagna diventa nuda, lassù cresce l'albero più piccolo della terra: il salice nano. Nella foresta della letteratura io sono un salice nano». Ma questo salice nano negli anni è cresciuto a dismisura, tanto che oggi è divenuto un Meridiano Mondadori, in cui sono raccolte tutte le opere dello schivo scrittore veneto che dall'alto dei suoi 82 anni può permettersi di guardare il mondo con la benevolenza di chi ha sempre praticato il rispetto verso gli altri come un dovere assoluto. A questo volume, a cura e con un saggio introduttivo di Eraldo Affinati (1.821 pagine, 49 euro), oltre ad un titolo unitario - «Un anno sull'altipiano» - Rigoni Stern ha voluto dare una struttura originale: i suoi cinque romanzi e le dieci raccolte di racconti non sono presentati nell'ordine in cui furono pubblicati, ma secondo la cronologia degli eventi che raccontano. Domandiamo allo scrittore che effetto gli faccia essere entrato fra i classici. «Mi sento imbarazzato persino a parlarne - risponde, umile come sempre - poco fa sono andato a passeggiare nel bosco dietro casa, guardavo quest'autunno splendido pieno di colori e mi chiedevo: mah, un Meridiano, ma me lo merito? Pensavo che di quello che ho scritto fossero buone solo due o trecento pagine. Mi confronto anche con gli altri, e mi accontenterei di salvare un terzo di quello che ho fatto. L'unico vantaggio è che i lettori potranno avere un libro unico che parte dall'Ottocento e arriva ai giorni nostri». Come nacque il suo primo libro, «Il sergente nella neve»? «Sentivo il bisogno di ricordare i miei compagni che non erano tornati dalla guerra, una cosa che oggi, con le guerre che girano per il mondo, dovrebbe far riflettere. Io ho avuto la fortuna di tornare vivo dalla Russia, forse grazie alle preghiere di mia madre, e sentivo il dovere di dire quello che avevo visto e vissuto, anche a nome dei miei compagni, la maggioranza, che non erano riusciti a tornare. Qualcuno doveva raccontare le pene che avevamo patito, così come Primo Levi ha fatto con l'Olocausto. Per questo tutti i miei libri hanno ancora oggi, almeno per me, la stessa forza evocativa del tempo a cui si riferiscono. Le testimonianze debbono sfidare il tempo, essere un monito a non ripetere gli stessi errori». Nell'«Anno della vittoria» lei parla invece della Grande Guerra, alla quale non ha partecipato perché era ancora un bambino. Che cosa l'ha spinta ad affrontare un argomento così lontano? «Non ho combattuto nella Grande Guerra, ma l'ho vissuta nel mio paese distrutto, ne ho sentito parlare dettagliatamente dai miei compaesani e da ragazzo andavo a giocare nelle trincee e nelle gallerie che i militari avevano scavato sulle nostre montagne. Leggendo, studiando, ascoltando racconti, sono tornato indietro nel tempo, al mio bisnonno che aveva partecipato alle azioni veneziane del 1849 e del 1848 a Padova con gli studenti, a mio padre che aveva fatto la Grande Guerra e alla mia famiglia per tanto tempo vissuta da profuga: quel mondo di fatica, di emigrazione, di guerra e di pace non poteva essere dimenticato». A quei ricordi ha dedicato ben tre romanzi. «Sì, e considero la trilogia formata dalla "Storia di Tonle", "L'anno della vittoria" e "Le stagioni di Giacomo" un omaggio alla mia gente e alla mia terra: settant'anni di storia vissuta da tre generazioni». I molti racconti che ha scritto sembrano racchiudere la sua vita, perché in tutti l'elemento autobiografico è fondamentale: è come se raccontasse la sua esistenza a puntate. «Nei racconti c'è la mia vita, la mia infanzia, ma c'è anche uno sguardo alla storia, a quanto accadeva fra le due guerre. Sì, forse sono un'autobiografia a puntate, ma soprattutto esprimono quello che sentivo dentro di me, le memorie che non potevo trattenere, i sogni che