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di FRANCESCO CARELLA IN Italia ogniqualvolta l'attenzione degli storici si concentra su ...

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A srotolare, come in un rapido film, la pellicola della polemica storico-politica degli ultimi anni, dal tema della "morte della patria" a quello della "zona grigia", tanto per fare solo due esempi, ci si accorge che i toni usati sono sempre alti, quando non addirittura furiosi. L'ultimo "incendio", ma solo in ordine di tempo, è divampato poche settimane fa, quando Giampaolo Pansa ha mandato in libreria, per i tipi di Sperling & Kupfer, il suo ultimo libro, «Il sangue dei vinti», nel quale si narra di uno dei capitoli meno frequentati e più dolorosi della "guerra civile": gli assassinii commessi dai partigiani dopo il 25 aprile '45. Caddero sotto quel fuoco molti fascisti, ma anche preti, agrari e tanta gente comune. Denis Mack Smith, autore di una laterziana «Storia d'Italia» ancora molto venduta a oltre quarant'anni dalla prima edizione, segue i dibattiti che si accendono periodicamente in casa nostra da un osservatorio privilegiato: lo "splendido isolamento" della sua abitazione di Oxford. Lo abbiamo intervistato alla vigilia di un suo viaggio in Italia in occasione del secondo salone del libro storico che si terrà a Roma dal 22 al 26 ottobre prossimi. Professor Mack Smith che cosa pensa delle ultime ricerche storiche sui crimini dei partigiani contro i fascisti all'indomani dell'aprile 1945 ? «Gli studi in questo campo sono molto difficili. C'è chi parla di diecimila morti, altri di ventimila, altri avanzano cifre ancora più pesanti. Sarebbe stato opportuno attivarsi sul piano della ricerca già nei primi anni del secondo dopoguerra, soprattutto a livello locale, per fare immediata chiarezza su quei massacri. Ma nei primi anni della Repubblica il trionfo sul fascismo era così presente che molte pagine, anche brutte, non furono aperte. La verità è che contare quanti morti ci siano stati da una parte e quanti dall'altra, dopo sessant'anni, può risultare un esercizio davvero impossibile». La storia, va da sé, non si scrive con la contabilità nuda e cruda. Il fatto è che, in Italia, se uno storico si occupa di alcuni crimini del passato, come è accaduto recentemente a Giampaolo Pansa, si scatena il putiferio. L'accusa che viene lanciata dal mondo della sinistra è sempre la stessa: si tratta di un'opera "revisionista". Qual è la sua opinione? «Chiariamo subito un cosa. Il revisionismo sul terreno della ricerca storica rappresenta la libertà di potersi porre qualsiasi domanda sul passato, senza che si frappongano limiti. Questa è la condizione indispensabile per ottenere sempre nuovi risultati. Il revisionismo è una cosa che non deve finire mai. In caso contrario, gli storici dovrebbero cambiare mestiere. Fatta questa premessa, occorre dire che quel che avvenne, dopo l'aprile del '45, va letto in un preciso contesto storico». Siamo d'accordo, ma qui si tratta di numerosi casi di vendetta... «La vendetta è una cosa terribile, ma in quegli anni era quasi inevitabile. Io non vorrei essere equivocato, io non giustifico quei massacri, ma non bisogna dimenticare che l'Italia usciva dalle persecuzioni del fascismo e che le efferatezze perpetrate dagli uomini della Repubblica di Salò erano ancora una ferita aperta e dolorosa». Perché, dopo oltre mezzo secolo, l'Italia, nelle sue diverse anime politiche, non riesce a fare i conti con il proprio passato? «Perché la storia nazionale non viene vissuta come patrimonio comune. La storia, come si sa, è anche "finzione", creazione di miti unificanti. Faccio un esempio: in Inghilterra, per molti decenni, la "finzione" è stata esagerata, tutta incentrata sulle glorie dell'Impero, senza alcun riferimento a episodi negativi. In Italia è accaduto l'opposto. Il valore di tante pagine della vostra storia è stato sottovalutato e messo da parte. Ricordo che nel mio primo viaggio in Italia, nel 1946, io ebbi la sensazione che gli italiani conoscessero poco la loro storia. All'epoca diedi la colpa al fascismo, ma continuo ad avere la medesima sensazione

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