De Oliveira, girare un capolavoro a 94 anni
Manoel De Oliveira (nella foto) non ama parlare del suo passato, che quasi coincide con l'intera storia del cinema. 94 anni, più di settanta trascorsi a girare film, annuncia che vuole restare dietro la macchina da presa fino a cento anni. «Presto - assicura - inizierò a girare il mio nuovo film». Il regista portoghese è in questi giorni a Roma per ritirare il premio Filmcritica «Maestri del cinema Campidoglio», che ieri gli è stato consegnato da Stefania Sandrelli, l'attrice italiana da lui scelta per la sua ultima pellicola, «Um filme falado» (Un film parlato), già presentata a Venezia. Maestro, in quest'opera lei ha scelto un cast internazionale, facendo parlare gli attori nelle loro lingue di origine. Ha voluto fare un film europeo e non soltanto portoghese? «Non è un film culturale, è un film storico. Il Portogallo fa parte dell'Europa e questo è un film sulla civiltà europea». È un messaggio all'Europa unita? «No, i miei film non hanno un messaggio, ma vorrei dire che è ancora presto per parlare dell'Unione europea, perché bisognerebbe avere un cuore grande così ed essere generosi, perdere il senso del potere e del possedere e questo è qualcosa di molto complesso, perché è contro la natura umana». Il suo prossimo film? «Affronterò il mito portoghese "dell'incappucciato", la vicenda del re Sebastiano che voleva costruire un nuovo impero con un unico re e un'unica religione. È un mito che esiste anche nel mondo arabo, con l'attesa di un salvatore che all'improvviso compare su un cavallo bianco. In Portogallo si credeva che Sebastiano fosse morto in battaglia, ma il corpo non è stato mai trovato, così è rimasta la leggenda che un giorno sarebbe ricomparso tra le nebbie per salvarci. Siamo in attesa di un salvatore. Il mito simboleggia anche la venuta di Cristo e incarna la voglia di unione universale, pace e benessere che prende corpo nell'idea dell'Unione Europea, un'uguaglianza non in senso religioso ma pragmatico, economico». Il premio Filmcritica prima di lei è andato a Hitchcock, Elia Kazan, Scorsese, Polanski e Godard, cosa vi accomuna? «A me piace considerarmi diverso come io considero loro tutti diversi gli uni dagli altri. Se fosse altrimenti significherebbe che la globalizzazione è una cosa compiuta e sarebbe un disastro, perché la diversità è una cosa fondamentale. L'uguaglianza esiste solo nell'esercito, è qualcosa che ha a che vedere con la disciplina militare, mentre l'uomo per natura è indisciplinato, ha orrore della disciplina». Che rapporti ha con gli attori dei suoi film? «Ottimo. Gli attori sono il sale del film. Il momento terribile è quando devo sceglierli, poi sono tranquillo. Una volta mi hanno detto che non sapevo dirigere gli attori, ho risposto: "È impossibile, io non ho mai diretto i miei attori, gli dico qual è il loro ruolo, poi li lascio fare"». Lei ha lavorato anche con attori italiani, come Mastroianni, cosa ricorda di lui? «Quando ho lavorato con lui era già malato, ma ci ha messo un grossissimo impegno. Dentro doveva soffrire molto, ma non si lamentava mai. Era un uomo superiore. Alla fine delle riprese mi disse che se volevo fare un'altro film con lui bastava che lo chiamassi. È stato un momento scioccante per me: ho avuto la sensazione che lui sapesse già di essere condannato e volesse lavorare tanto perché così gli sembrava che la morte non sarebbe arrivata. Era un uomo sensibile e un attore straordinario, forse il più grande attore europeo». Lei ha attraversato un secolo di cinema: c'è qualche regista giovane che lei considera suo successore? «Non mi sento maestro, mi sento piuttosto un allievo, uno studente di cinema».