di ENRICO CAVALLOTTI CON LA sorella Smaragda, intellettuale magnetica e lesbica, coltiva ...
Il viennese Alban Berg (1885-1935), cui dedica Santa Cecilia da domani un commendevole festival coll'esecuzione del «Wozzek», è un giovane dal tratto aristocratico e blandulo. I capelli biondi. Lo sguardo ceruleo. Ad orientare il Nostro verso la musica è l'incontro fatale con Arnold Schoenberg, che non soltanto l'ammaestra nel mestiere musicale ma lo sostiene in spirito lungo l'arco della vita. L'altro celeberrimo alunno di Schoenberg, Anton Webern, costituisce con i due il vertice di quella denominata «Seconda Scuola di Vienna» (la prima essendo stata eternizzata da Haydn, Mozart e Beethoven). La seconda «Wiener Schule» s'incardina sul principio dello «Zwölfton System», o sia la tecnica dodecafonica schoenberghiana volta a fondare un nuovo ordine sintattico-strutturale del linguaggio dei suoni dopo l'esaurimento delle funzioni armoniche classico-romantiche suggellato dal cromatismo wagneriano. Sulla comune base dei canoni della dodecafonia i tre compositori assumono tuttavia posizioni d'estetica e modalità espressive diverse fra loro. Se Schoenberg è il teorico del movimento cui serba fedele la propria musica anche a scapito del libero fluire dell'intuizione fantastica, Webern costringe l'organizzazione sonora in una sorta d'astrattismo aforistico: quasi a lambire il burrone del silenzio. Berg è contraddittorio: il piú «umano» e soave dei tre s'inoltra nelle nuove e scabre plaghe linguistiche ma ognora esprime il richiamo della tradizione e della «Sehnsucht» tardoromantica: usa la dodecafonia ma tutta la pervade di reminiscenze tonali: in un'antitesi sempre irrisolta e poeticissima fra la razionale tensione all'inesplorato e la commozione lirica per la coscienza del passato che palpita ab imis e drammaticamente invoca un perenne ricupero. Berg è il compositore che nella prima metà del secolo ventesimo meglio rispecchia la cupa discordia dell'artista moderno, serrato tra l'urgenza d'un riordinamento del segno linguistico e l'anelito ad abbracciare ancora la bellezza - ormai pallente e cava e pur tenace e prossima - del melos romantico. Non è copioso il catalogo del maestro austriaco, però ogni lavoro cesellato e rastremato all'essenziale. Dal «Violinkonzert» che intreccia un disperante lirismo all'austerità dell'ideazione, lo spesso melodizzare alla lucidezza cristallina dell'impianto, la tonalità alle piú diafane ed imperturbate contrade dodecafoniche. Ma la formidabile centralità storica ed artistica di Berg è altresí generata dai due cimenti operistici che valgono il canto del cigno del teatro musicale del Novecento: «Wozzeck» e l'inadempiuta «Lulu»: suo capolavoro assoluto. Ammalia nel «Wozzeck», che ascolteremo da domani al Parco della Musica, l'interazione fra la volontà dell'autore d'adergere ancora un monumento melodrammatico - e non già una sua copia - e le oggettive condizioni del linguaggio musicale a lui contemporaneo che, respinto il diruto baluardo tonale, non sa piú indicare le coordinate strutturali e stilistiche che insino ad allora hanno permessa la progettazione del teatro operistico. Berg smatassa il nodo sostituendo alla griglia tonale talune forme cameristiche e sinfoniche della civiltà classico-romantica: le modella su quindici delle ventisei scene frammentarie che animano l'omonima «Ballata» di Georg Büchner, in esse sprigionando uno struggente fiotto d'afflato lirico. «Lulu» rimane inadempiuta. La desolata e riarsa materia della vicenda, tipica dell'«Expressionismus», ritrae la donna-sesso, dal corpo obbediente e perverso, destinato a sedurre: magalda smaniosa e morbosa che proclama la ribalda vittoria dell'Eros sullo spirito in ruina. E l'orchestra tumultua, la vocalità conserta un forsennato declamato ai lemuri del «bel canto», il parlato e il grido