Una penna contro l'apartheid
J. M. Coetzee ha raccontato la sua prima avventura terrena in diciannove scene «Senza storia» che anche nel titolo riflettono la dura rappresentazione della provincia sudafricana di un ragazzo di dieci anni, bianco e cattolico come tanti altri, con una storia, appunto, come tante altre. C'è il protagonista censore in quel libro di memorie che dice: «Guarda spesso le figure, ma non fa progressi nella lettura: è un libro noioso, non è una storia», e si riferisce a se stesso, alla sua intolleranza verso qualcosa di troppo complicato, che non riesce ad appassionarlo. E infatti lo stile di Coetzee — forse anche questa caratteristica ha inteso premiare il Nobel con i suoi soloni — è semplice, asciutto e sobrio anche quando va a scavare nell'universo della memoria, e la rivive e la recupera come farebbe un buon vecchio d'altri tempi davanti ai nipotini e ad un caminetto acceso. Tutto questo comporta un distacco dal proprio tempo, una a/cronicità che diventa angosciosa necessità per un fanciullo egocentrico per autodifesa, crudele, insensibile e bugiardo, così rapidamente in balia della «bella figura» da fare davanti agli altri, da apparire un «piccolo adulto ipocrita», in perenne ricerca di conferme e di modelli cui adeguarsi. Una riprova e una verifica di queste confessioni si ritrovano in un testo del 1980, apparso in Italia dieci anni dopo, «Aspettando i barbari», una storia di una limpidità profonda e insondabile, in cui si racconta di un magistrato bianco che per anni ha curato un piccolo insediamento di frontiera ignorando la guerra in atto tra i barbari e l'Impero e all'improvviso si ritrova a confrontarsi con la realtà dei prigionieri vessati durante gli interrogatori. C'è un sottile rivolo autobiografico in tutto questo, pur nel progetto immaginario, che ritorna ancora nel suo testo forse migliore e più risolto, «La vita e il tempo di Michael K», dove in un paese compreso nella morsa di un conflitto inspiegabile, reso ancora più inquieto e tormentato dalle sirene del coprifuoco, c'è un uomo ritardato dal labbro leporino che con la vecchia madre si aggiunge inconsciamente alla folla di disperati in fuga verso la campagna come verso un Eden irraggiungibile. Ma la ricerca inesausta di Coetzee non si consuma, ed ecco allora «Vergogna» dove la letteratura di frontiera, inquietante e sofferta, va a introdursi nel tunnel senza scampo del sesso, o meglio di un protagonista convinto che quella componente gli servirà per risolvere ogni problema. Non è così, perché la conquista per David Lurie diventa un'accusa per molestie sessuali che gli chiude le porte dell'Università dove insegna, e gli apre invece orizzonti impropri, la campagna nella parte orientale della provincia di Città del Capo, dove una figlia fa quanto può per sorreggerlo. È il Sudafrica post-apartheid a far da protagonista per una vicenda del genere, con tutti i suoi equivoci e le sue ambiguità e l'inerzia della coscienza a fronte di un'aggressività che accentua fino all'impossibile l'inermità del soggetto umano. Qui si avverte una straordinaria tenuta narrativa da parte di Coetzee che lascia il lettore in una condizione esistenziale di inevitabile partecipazione non soltanto all'avventura in sé, ma ancor più a fronte della tempesta di problematiche che una condizione del genere comporta. Sono le «Terre al crepuscolo» — il titolo dell'esordio — a vivere la mutazione, e dopo averle descritte nella dura e nuda verità dell'intolleranza e della prigionia interiore, ora riemergono dal fondo della vergogna per restituirsi ad una «Gioventù», altro titolo di una già ricca bibliografia, allorché un paziente e giudizioso studente universitario che vuol diventare l'Ezra Pound del suo