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di MAURIZIO MARINI LO SCORSO anno, guidati da monsignor Sandro Corradini, sono approdati ...

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I due erano alle prese con un enigma attributivo storico-artistico particolarmente interessante. Il materiale fotografico dell'opera, una grande pala d'altare (cm 345 x 245), raffigurante lo Sposalizio della Vergine, pertinente alla chiesa parrocchiale di San Giuseppe, a Grosio (in provincia di Sondrio), conteneva forti accenti chiaroscurali che avevano fatto pensare all'ambito caravaggesco. E una relazione del prevosto di Grosio, redatta alla fine del XVII secolo, riferiva che la tela dell'altare maggiore era opera di un «eccellentissimo pittore romano». A mio avviso l'artista doveva essere individuato tra quelli di area caravaggesca romana, ma con un forte sentore meridionale, quasi certamente napoletano, e pensai a Mattia Preti (nativo, nel 1613, di Taverna nella Piccola Sila catanzarese, e morto, nel 1699, a La Valletta, Malta), formatosi proprio a Napoli sugli esempi di caravaggeschi come Battistello Caracciolo e Ribera, ma giunto nel 1630 a Roma, dove era già attivo il suo fratello maggiore Gregorio. Nella città papale i due fratelli collaborarono fino all'emancipazione di Mattia, più dotato e destinato a divenire uno dei protagonisti del Barocco europeo. Qualche frammento documentario individuava poi il committente nel patrizio valtellinese Giovanni Battista Negri de Emanuelli, il quale, trasferitosi a Roma, si era arruolato nella Guardia Svizzera, fino a raggiungere un alto grado. Il cerchio si chiudeva con altre informazioni che facevano parte della vertenza che contrappose due rami della famiglia. Da alcune lettere scritte dall'Emanuelli all'amico e congiunto Simone Negri si apprende che nel 1642 aveva dato a «uno dei più eccellenti pittori di Nostro Signore» (il Papa) la caparra per dipingere il quadro per la chiesa di San Giuseppe e che al momento il lavoro era già avviato. In un'altra lettera, inviata da Roma nel 1644, l'Emanuelli comunicava che la grande tela era stata completata e affidata al «Maestro di Camera» del cardinal Bragadin, il quale, nominato di recente vescovo di Vicenza, era in partenza da Roma. A Vicenza avrebbe consegnato la tela a Stefano Sermondi, nipote del committente, che ne avrebbe curato il percorso fino a Grosio, dove giungeva nel 1645 accolta con una cerimonia solenne. Un'ulteriore notizia filtrata dalle carte giudiziarie è costituita da una memoria del suddetto Sermondi, il quale, nel 1644, affermava di avere appreso da suo zio che il quadro era costato 200 ducatoni e che ne era autore un pittore il quale, per meriti artistici, era stato creato dal pontefice cavaliere. Infatti, nel 1642 Mattia era stato nominato da papa Urbano VIII Barberini cavaliere dell'Ordine di Malta. Proprio il carattere drammatico del luminismo e il passo compositivo mi avevano richiamato un quadro che Mattia dipinge nel 1641-42, per Taddeo Barberini, «Santa Caterina d'Alessandria visitata in carcere dall'imperatrice Faustina» (oggi a Dayton, Art Institute), in cui traspariva la falsariga delle «Opere di Misericordia», capolavoro napoletano del Caravaggio, come nel «Matrimonio della Vergine» di Grosio, che è intriso di un senso affine della realtà contingente. Il fendente di luce che scopre la narrazione sulla ribalta dà rilievo a volti e gesti tra il Cielo e la Terra (dall'assorta partecipazione della Vergine adolescente alla presbiopia di San Giuseppe, sottolineandone realisticamente l'età avanzata). Al di là dell'elegante ritratto del committente, dal margine sinistro entra di prepotenza un altro personaggio che occhieggia verso il fruitore, al pari di quello col turbante (il solo, con gli altri due, in abiti moderni). La sua somatica è pertinente a quella di Gregorio Preti, così come a Mattia, divenuto il «Cavalier Calabrese», rinvia il volto il suddetto personaggio che ci guarda dall'estremo margine a sinistra. In tempi di dispute e di falsi problemi regionalistici questo capolavoro «meridionale» in terra valtellinese conferma quello che gli antichi avevano già realizzato: l'unità d'Italia (e d'Eu

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