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Da Dongo al lago Toepliz l'oro di Stato è un giallo

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fra questi il sogno di quei capaci galeoni spagnoli in fondo al mare carichi di dobloni d'oro. O l'antro di Aladino. Ma l'oro e la sua avventura non si fermano qui. Anche nel recente passato ecco tesori finiti in mare, talvolta sui fondali di un lago; oppure in segrete caverne. È a questo aspetto della vicenda che Carlo De Risio, giornalista e storico, dedica il suo nuovo libro: «L'avventura dei tesori di Stato» (Edit. Carabba, 144 pagine, 13 euro). Un libro che si legge alla stregua di un romanzo poliziesco, dove al rigore della ricerca si mescola una bella scrittura. Tutto vero, niente d'inventato, semmai alcuni misteri della storia che vengono adesso svelati da un ricercatore appassionato quale De Risio. Si parte dal bottino di Hitler nei paesi invasi nel corso del secondo conflitto mondiale, in Cecoslovacchia (e prima ancora in Austria), in Danimarca e Norvegia, in Belgio e in Francia, nei tre paesi baltici; e se una parte delle riserve auree vennero qui provvidenzialmente salvate, le razzie non furono di poco conto. L'Italia (lo fa capire De Risio) mise le mani sulle riserve jugoslave; salvo più avanti rischiare di perdere le proprie dopo l'8 settembre 1943 (e qui fece da freno ai tedeschi, anche se solo in parte, l'esistenza di un governo del Nord, la Rsi di Mussolini). Stalin ci mise del suo nei paesi dove arrivava l'Armata Rossa. L'Inghilterra salvò le proprie riserve auree trasferendole di fretta in Canada. Ma una parte dell'oro inglese finì egualmente in fondo al mare, per esempio quando una nave corsara tedesca affondò nel Pacifico la nave passeggeri Niagara, o un sommergibile nel Baltico centrò coi siluri l'incrociatore Edinburgh (il recupero è storia recente, e fu difficoltoso). L'oro albanese finì a Londra, per metterlo al sicuro; ma bisogna arrivare al 1992 prima che Tirana ne ottenga la restituzione, allorché la Banca d'Inghilterra molla a malincuore la presa su quello che può venir facilmente definito «il maltolto». Quasi incredibile la vicenda del cosiddetto «oro di Dongo», cioè i fondi riservati alla Repubblica di Salò, sequestrati tra Musso e Dongo alla colonna di gerarchi in fuga. Un calcolo cautelativo parla di circa 800 miliardi di lire se rapportate al presente, che era legittimo affluissero nelle casse dello Stato italiano. E invece finirono al Pci e chi non era d'accordo venne ucciso, anche dei comunisti di provata fede. Come Luigi Canali e Giuseppina Tuissi, duri e puri ma sufficientemente onesti per non pensarla come altri dirigenti del partito. Non è questa la sola vicenda sconcertante dei tesori di Stato. Ci furono le sterline false del Terzo Reich (una parte utilizzate per pagare i servigi della spia Cicero), con le quali si voleva portare alla bancarotta l'Inghilterra; così ben imitate da obbligare alla fine della guerra la Banca di Londra a sostituire una bella parte della propria moneta. Il tesoro delle SS finito nel lago di Toepliz; la fuga disperata verso il Sud America di una parte dell'oro tedesco, si pensò per finanziare una rinascita del Reich. Il denaro e le opere d'arte rinvenute in una caverna della Baviera. E la Svizzera, forziere d'Europa, che non esitò ad accettare in pagamento le ricchezze sottratte agli ebrei.

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