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Pupi Avati: «Oltre al mercato c'è la qualità»

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Insieme a Ozpetek, Muccino, Salvatores, Bellocchio e altri connazionali ha riscosso un ottimo successo al Festival di Toronto con il suo «Il cuore altrove», acclamatissimo: «A Toronto - ci dice - erano presenti nove titoli italiani, una presenza numericamente e qualitativamente rilevante. Il nostro cinema è apprezzato a livello internazionale. Ci sono film che hanno una garanzia di distribuzione in molti Paesi, alcune pellicole vengono distribuite anche in 25 nazioni. È chiaro che molti non sono film che partono con intenti puramente commerciali, ma hanno altre ambizioni. Noi preferiamo un cinema di qualità». Ma non avrebbe più facile mercato, il nostro cinema, se fosse recitato in inglese, come suggeriscono alcuni? «Dipende - ci risponde Avati (nella foto accanto) - quando il cinema italiano affronta certi generi, come il thriller, penso che dovrebbe avere la possibilità di essere girato in inglese». Avati non ha voglia invece di parlare del mancato Leone al film di Bellocchio: «Non l'ho visto, quindi non posso schierarmi. Non sono in grado di avere un'opinione obiettiva in proposito». Difende la giuria di Venezia Giuliano Montaldo (nella foto sotto), direttore di Rai Cinema, secondo il quale non è possibile che i giurati stranieri non abbiano compreso il caso Moro: «Quando il giudizio è fatto, non c'è da chiedere altro. Poi ho grande rispetto per Monicelli. Mi sorprenderebbe se gli stranieri non avessero capito il film, perché al Festival di Montreal ha ricevuto applausi fragorosi, vicino a me c'era una ragazza di 14 anni che era commossa. Ricordiamoci che il terrorismo è un problema che esiste in molte parti del mondo». Concorda l'attore Massimo Ghini: «Il caso Moro è talmente eclatante, mi sembra assurdo che persone colte come i membri di una giuria possano non comprenderlo». Il problema dell'esportabilità del cinema italiano secondo Ghini non esiste: «Abbiamo vinto tanti premi, poi i film sono sottotitolati, a dire il vero mi sembra una "gran fregnaccia"». Per Giuliano Montaldo invece c'è di che preoccuparsi: «Ora con l'Europa unita c'è uno scambio continuo in vari settori, ma mi sorprende che il lavoro di coproduzione e codistribuzione non sia più sviluppato. La coproduzione dà subito la certezza di un mercato in più Paesi. In passato c'erano scambi continui, non solo produttivi, ma anche di cast, oggi non è così». Gli fa eco Francesco Alberoni, che presiede la Scuola Nazionale di Cinema: «Il vero problema non è la lingua, è che bisogna fare accordi di coproduzione e codistribuzione». La lingua inglese può servire in alcuni casi invece, secondo Montaldo: «Dipende dalla storia: se faccio un film su una famiglia che abita in Prati a Roma, non posso girarlo in inglese. Poi non tutti gli attori italiani parlano l'inglese e si rischierebbe di umiliare interpreti straordinari: Gian Maria Volontè era eccezionale, ma non conosceva l'inglese. Eppure i suoi film sono andati all'estero, perché ricordiamoci che si può anche parlare con i sottotitoli». Non ha problemi a recitare in inglese Massimo Ghini, ma non ne riconosce la necessità: «Il problema della lingua - ci dice - è sempre stato strumentale. Gli americani, che sono titolari dell'inglese, l'hanno voluto imporre per essere padroni assoluti del mercato». L'ostilità del mercato statunitense è sottolineata anche da Alberoni: «Il cinema italiano ha difficoltà ad imporsi negli Usa perché gli americani vogliono che sia girato lì da loro, e usano il pretesto di rifiutarsi di fare il doppiaggio. Però i nostri film sono andati bene e hanno persino vinto degli Oscar». E intanto, come fa notare Ghini, i film italiani di qualità tornano a riscuotere successo in patria, il che non è poco: «Il dato che dovrebbe interessarci davvero è che il pubblico sta premiando il nostro cinema».

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