L'Oscar Salvatores: «Per cuore e tecnica siamo i primi Servono storie universali e tanta fiducia nei giovani»
Crisi? Quale crisi? Il regista premio Oscar nel '91 con Mediterraneo non ha dubbi: per tecnica e cuore gli italiani non sono secondi a nessuno. Salvatores, napoletano di nascita e cosmopolita per vocazione, con una dozzina di film nel suo curriculum resta un ragazzino che non ha paura di dire quello che pensa. Se l'Italia vuole una nuova «età dell'oro» del cinema i produttori devono lasciar fare i film agli addetti ai lavori, con le nuove idee e gli inevitabili rischi ed è indispensabile dare spazio ai giovani. In corsa per gli Oscar con «Io non ho paura» Salvatores precisa anche che i registi «non devono fare i furbi» e saper presentare storie universali in grado di essere capite in tutto il mondo. Gabriele Salvatores, qual è lo stato di salute del cinema italiano? «A giudicare da questa stagione le cose sembrano andare molto bene. Il pubblico italiano apprezza i film e le offerte sono differenti: ci sono registi affermati e bravi esordienti. Torno ora dagli Stati Uniti e dal Canada dove il nostro cinema è molto apprezzato. Va tutto molto bene». Il cinema italiano si esporta con facilità? «Secondo me ora più che in altri momenti. Il nostro cinema ha vissuto un'epoca d'oro, quella degli anni '50 e '60, cosa riconosciuta da tutti, anche da Scorsese e Coppola, che hanno imparato e ci hanno imitato. Quell'epoca ora si sta ripetendo, l'importante è che noi registi non facciamo i furbi e ci impegnamo a raccontare storie che tutti in tutto il mondo possano capire». Ma nel mondo il nostro cinema sa farsi rispettare? «Come tecnica e come anima sì. Siamo i numeri uno. Quando ho girato "Nirvana" tutti mi chiedevano chi erano i maestri degli effetti speciali. Si trattava di un gruppo di giovani, quasi alle prime armi, ma che avevano fatto cose eccezionali. Molti addirittura non ci credevano. Certo, noi non abbiamo i "loro" mezzi, soprattutto per la distribuzione. E per "loro" intendo gli americani, ma cuore e anima ne abbiamo da vendere». A proposito di americani, lei è tra i registi italiani in corsa per la notte degli Oscar. «Ne sono onorato, comunque vada però "Io non ho paura" negli Stati Uniti non poteva andare meglio. Il film è stato sottoposto a dei test e ha ottenuto il doppio del gradimento di "Mediterraneo". Certo bisogna capire a cosa serve un Oscar, offre un pubblico enorme per il mercato dei film sottotitolati». È mai stato doppiato in inglese un suo film? «Sì, "Nirvana". Era pessimo, molto meglio la versione originale. Per poter esportare meglio i film bisognerebbe girarli direttamente in inglese, con attori anglosassoni, ma anche, possibilmente, con attori italiani che parlano inglese. Forse le nuove generazioni non avranno problemi a farlo. Comunque io Nirvana l'ho potuto girare perché avevo vinto un Oscar, altrimenti un film di fantascienza in italia è tabù». Ma che bisogna fare per produrre film più internazionali? «I produttori devono lasciare lavorare noi professionisti del cinema, senza pretendere sempre gli stessi film che danno un successo sicuro. Poi bisogna investire sui giovani, dare loro fiducia e farli lavorare».