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IL PARERE DEL CRITICO

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L'occasione, anzi il pretesto, il mancato Leone d'oro a Venezia a «Buongiorno, notte» di Bellocchio che non sarebbe stato capito dagli stranieri in giuria i quali, all'oscuro delle vicende italiane, vedendo alla fine Moro libero per le strade di Roma non si sarebbero resi conto che si trattava di un sogno di uno dei suoi carcerieri, la brigatista in crisi. Se fosse vero, e se quegli stranieri in giuria avessero dovuto conoscere i fatti esposti per distinguere la rappresentazione cinematografica di un sogno da quella di una cronaca, non avrebbero meritato di far parte di un consesso chiamato a giudicare dei film. Con loro, comunque, c'erano due italiani che quei fatti li conoscevano bene. Non sono intervenuti, sembra - a quanto si è letto — perché non condividevano la cifra «politica» del film con la crisi della brigatista. Certo non era una cifra «storica» perché Bellocchio, nel suo film, aveva immaginato e inventato. Cosa ne sappiano noi, però, della crisi di Agamennone quando Calcante gli ordinò di uccidere Ifigenia? Pure il testo greco vi ha dedicato alcune fra le sue tragedie più celebri, a cominciare dalle due di Euripide arrivate fino a noi. E nessuno obietta su quei fatti, neanche quando, nell'«Ifigenia in Tauride», Artemide provoca il lieto fine. Altro pretesto recente per dir male del cinema italiano, la circostanza che produttori e autori non si decidano ancora a realizzare film in inglese. Da qui i nostri insuccessi all'estero con film definiti «non esportabili». La smentita è arrivata proprio in questi giorni con parecchi nostri film andati incontro a unanimi consensi in alcuni festival del Nord America, a Toronto e a Telluride. Non solo «Buongiorno, notte», che a Venezia non avrebbero capito, ma «Il cuore altrove» di Avati, «Ricordati di me» di Muccino, «La meglio gioventù» di Giordana, «La finestra di fronte» di Ozpetek e, soprattutto, «Io non ho paura» di Salvatores che Budd Schulberg, il famoso sceneggiatore di «Fronte del porto», ha definito «il film più bello che abbia visto nella mia vita». E non era parlato in inglese, come non lo erano gli altri. Naturalmente l'inglese — la lingua «franca» di oggi — apre molte più porte ed è logico che un produttore, dovendo immettere un suo prodotto sul mercato, cerchi quello che gli offre spazi maggiori; da qui il successo nel mondo dei film americani e di tutti quelli parlati in inglese. Il cinema, però, come diceva Chiarini, è industria, il film invece è arte. Se mettendosi a parlare in inglese un film annulla la propria identità culturale e quella del suo autore, è preferibile che si tenga all'italiano, evitando quel termine orribile oggi tanto di moda che è «omologazione». Come hanno fatto Visconti, Rossellini Fellini.

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