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di GIAN LUIGI RONDI ALILA, di Amos Gitai, con Yaël Abecassis, Uri Klauzner, Hanna Laslo, ...

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AMOS Gitai è di certo l'autore più significativo del cinema israeliano. Basterebbero, per fare la sua fama, i suoi film più recenti, «Kadosh», «Kippur» e «Eden». Spesso, però, con risultati ineguali, se non da punto di vista dello stile, di quello del racconto. Come, tutto sommato, nel film di oggi andato incontro all'ultima Mostra di Venezia a un successo solo discreto. Un quartiere periferico di Tel Aviv, sulla strada di Jaffa. Al centro, un condominio abitato da persone modeste, con piccoli problemi: di vita, di lavoro, nei rapporti interpersonali. Un uomo e il suo cane, una donna che grida troppo quando fa sesso, disturbando dei vicini o insofferenti o bisbetici, un padre politicamente in crisi che deve fare i conti con un figlio per nulla desideroso di partire per il servizio militare e che difatti, chiamato alle armi, diserta (sia pure, alla fine, con il consenso pieno e convinto proprio del padre), un piccolo imprenditore costretto, per la sua impresa, a rivolgersi a una mano d'opera straniera, soprattutto clandestini cinesi che accettano di lavorare in nero. E altri più di sfondo o di contorno. Gitai, che si è fatto ispirare da un romanzo, passa da un personaggio all'altro cercando di mantenere sull'azione un clima affidato a ritmi narrativi omogenei, vi riesce solo in parte, però, ricorrendo soprattutto, dal punto di vista tecnico, e dei «piani sequenza» che, grazie anche alle belle immagini del noto direttore svizzero della fotografia, Renato Berta, consentono ai vari episodi di proporsi con una fluidità degna di rilievo, specialmente, però, dal punto di vista figurativo. Anche se le diatribe dei personaggi e le loro fisionomie tenute spesso su note troppo alte stentano a convincere. E con interpreti che, pur spesso presenti nel cinema di Gitai, arrivano di rado a proporsi come presenze sullo schermo. Perché non incisivi.

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