Quello scugnizzo che infiammò i napoletani
Napoli si era svegliata, come sempre, all'alitar del mare che batteva pigro sotto i bastioni del Maschio Angioino fra le chiassose grida dei venditori ambulanti e delle comari che se stavano affacciate ai balconi con i panarielli penzolanti. In quelle calde giornate estive la merce più appetita dai lazzaroni non erano i fichi, turgidi e freddi, ancora roridi di rugiada e appena arrivati dai «giardini» partenopei. «Jamm, jàaa...!» era il grido con cui i pozzolani richiamavano l'attenzione della gente, ma gli acquirenti, quel giorno, tardavano ad arrivare o non arrivavano affatto. Quale poteva essere il motivo? La gabella sulla frutta imposta dal Viceré, duca d'Arcos, per rimpinguare le tasche del sempre più vorace re di Spagna Filippo IV. I tafferugli incominciarono presto davanti alla marina del Carmine. Si distinse subito, tra quella folta marmaglia di lazzari, scalzi e sporchi, il giovane pescivendolo Tommaso Aniello, per i concittadini, Masaniello: piccolo, tarchiato, spaccone e mano lesta. A far rivivere le gesta di Masaniello è il giornalista e scrittore partenopeo Giuseppe Campolieti, in una biografia fresca e affascinante che riporta il lettore nella disincantata atmosfera di una Napoli seicentesca, pittoresca e chiassosa. Il giovane Masaniello diede avvio alla sua avventura con una banda di monelli, detti alarbi, al grido di «Nun vulimmo la gabella! Viva viva il re di Spagna. Mora mora il malgoverno». La turba, da lui guidata, attaccò in quel fatidico giorno il palazzo reale, sbaragliando i gendarmi e penetrando nelle lussuose sale del piano nobile. Si ritrovò faccia a faccia con il pasciuto viceré il quale, con una mano alla gola e una alle brache, acconsentì all'abolizione immediata della gabella. I fichi potevano ora circolare liberamente in Piazza Mercato. Il pescivendolo nato nel quartiere di Vico Rotto, nel 1620, nei suoi nove giorni di «regno» fece scorrere vino e sangue a volontà per le piazze e i palazzi di Napoli. Era istruito, magistralmente, dalla grande mente del complotto antispagnolo, dall'ottuagenario Giulio Genoino, avvocato, profeta e prete spretato, che sognava l'uguaglianza tra la nobiltà e il popolo in nome di un antico diritto sancito da re Carlo V. Masaniello seppe interpretare magistralmente la sua parte; scalzo e sbracato arringava la folla, distribuiva ordini alla rinfusa, bestemmiava come un ossesso lanciando improperi contro i «ladri spagnoli». La rivoluzione finiva presto, il 16 luglio, festa della Madonna del Carmine, tra le grida del popolaccio e quelle di Masaniello spedito in una fogna con quattro colpi d'archibugio. Sarà Benedetto Croce a ricordarla come «un tumulto plebeo senza né capo né coda».