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di GIAN LUIGI RONDI PICCOLI AFFARI SPORCHI, di Stephen Frears, Audrey Tatou, Chjwetel ...

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Jekill e Mr. Hyde» dal punto di vista della governante. Oggi ci si ripresenta con un film molto apparezzatto alla Mostra del di Venezia l'anno scorso, «Dirty Pretty Things» intitolato appunto, nella sua edizione italiana, «Piccoli affari sporchi». Un traffico d'organi nella Londra multietnica di oggi. In un albergo sordito ed equivoco, luogo d'appuntamento per prostitute, il portiere di notte, nigeriano, scopre un'attività anche più contro le norme, addirittura la vendita di organi dopo averli espiantati a poveri immigrati in cambio di passaporti o di permessi di soggiorno. Il bene alla fine trionfa, ma Stephen Frears, che in tutta la sua felice carriera nel cinema britannico non ha mai ceduto alla retorica, vi arriva con rigore, facendolo precedere da una descrizione incisiva e spesso lacerante di quegli ambienti in cui, invece, il male sembra sempre vincere: per interessi biechi, per omertà torve, per una serie continua di ricatti turpi. Personaggi evocati a tutto tondo, ciascuno con segni giusti, verità svelate a poco a poco, specie le più esecrabili, gli orrori di quegli abominevoli mercati fatti via via scaturire, all'inizio, solo fra le pieghe dell'azione, in cifre in cui, quasi segreta, ma sempre più palpabile, è la suspense a dominare. Tra figure in contrasto al centro: l'onesto nigeriano (Chjwetel Ejlofor) che riuscirà ad imporsi anche contro quelli che potrebbero essere i suoi privati interessi, un ignobile portiere ispanico (Sergi Lopez) che regge con spietato cinismo le fila di quelle turpitudini, ripagato alla fine con la stessa moneta, e una timida cameriera turca (la francese Audrey Tatou) che rischia di finire dalla parte delle vittime. Segnano il film e concorrono al suo successo. Per merito anche della foto di Chris Menges che ricrea una Londra mai così nera.

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