L'altra Slovacchia che vedrà Wojtyla
È la terza visita: ora il Muro è davvero crollato e il Paese s'è liberato dei residui dello stalinismo
E pronta ora ad entrare in Europa. Sacrificando un po' della propria sovranità. Ma portando con sé una identità storico-culturale e una eredità religiosa che ne fanno un Paese abbastanza atipico nel panorama dell'Est europeo. La prima volta che Papa Wojtyla andò a Bratislava, nell'aprile del 1990, il Muro era caduto da poco, l'Urss cominciava a disgregarsi. Quel viaggio celebrò la vittoria della libertà sul totalitarismo, sull'ateismo eretto a sistema. Però a quel tempo la Slovacchia non solo era ancora legata alla Boemia e alla Moravia nella nazione cecoslovacca, ma continuava ad essere strutturata secondo l'ideologia marx-leninista. Nel 1993 ci fu il referendum, e gli slovacchi diventarono una nazione indipendente e sovrana. Per secoli erano rimasti sotto i magiari, ma i cechi erano riusciti a farli sentire ancora più sottomessi, gente di serie B. Così era rispuntato fuori il loro nazionalismo, espressione - più che di una volontà di potenza - di una voglia di libertà troppo spesso conculcata dai potenti vicini di casa. Ed ecco il Papa ritornare a Bratislava, e visitare il Paese. Era l'inizio dell'estate del 1995. Ma la Slovacchia, pur indipendente come Stato, era obbligata a conservare una impostazione sociale ed economica da «socialismo reale». Alla sua guida, come premier, c'era un comunista riciclato, Vladimir Meciar, uomo dai modi autoritari, antidemocratici, e responsabile dei fallimenti che avrebbero via via segnato la storia slovacca di quegli anni: l'esclusione dalla Nato e dall'UE, l'aumento della corruzione e della criminalità, e tutta una serie di privatizzazioni molto sospette. Finché nel 1998 ci fu la svolta. All'origine c'era stato il coalizzarsi dei partiti dell'opposizione, c'erano state le proteste della società civile, ma soprattutto c'era stata la rivolta di una gioventù che era ormai vaccinata dalle lusinghe del postcomunismo. Meciar infatti venne mandato a casa. E, dopo di lui, un governo moderato avrebbe rapidamente modernizzato le istituzioni, avviato le riforme, e fatto uscire il Paese da una situazione di povertà tra le peggiori all'Est. Giovedì prossimo, perciò, Giovanni Paolo II tornando a Bratislava troverà una Slovacchia che ha visto finalmente crollare anche il suo Muro. E si è liberata di tutti i residui dello stalinismo che ancora inceppavano il suo cammino. L'«occupazione» comunista è finita per sempre. Come sanzionerà, per certi aspetti, la beatificazione di un vescovo e di una suora, vittime appunto della persecuzione sovietica. E comunque, in tutti questi anni, la Slovacchia ha mantenuto fondamentalmente la propria fede religiosa, ha resistito agli assalti dell'Occidente secolarizzato e consumistico. E, al di là del risultato apparentemente risicato del referendum per l'ingresso nell'UE, solo il 52 per cento, sembra essere molto più convinta della scelta fatta che non la Repubblica ceca, avviata ormai a sposare la causa dell'euroscetticismo. Nazione di piccole dimensioni (cinque milioni e mezzo di abitanti) e con un passato dalle molte contraddizioni (come quando mons. Tiso, presidente di uno Stato cristiano, si appoggiò a Hitler), la Slovacchia ha tutto da guadagnare entrando in Europa. E forse, grazie anche al sostegno del Papa polacco, riuscirà a coronare il suo sogno, di far da «ponte» tra il mondo occidentale e quello slavo.