«Mio caro Ben», «Cara Claretta» Così Alvaro pubblicò la passione
Ed era stato ancora prima del 25 luglio a causa di un fatto di cronaca. Vivevo a Roma e avevo visto dai finestrini della Circolare Rossa alcuni ragazzi — più o meno ventenni come me — spalare la sabbia sulle rive del Tevere. Chiesi al tranviere chi fossero e che cosa facessero. Mi rispose che erano gruppi di ebrei che il regime aveva condannato a quell'ingrato e inutile lavoro in sostituzione del servizio di leva che era a loro proibito per il fatto di essere israeliti. La notizia dell'armistizio con gli anglo-americani di cui parlò Badoglio in serata alla radio non mi sorprese molto, ma ebbi l'impressione che a quella scadenza si fosse arrivati nelle peggiori condizioni. E forse troppo in fretta perché l'indomani mattina, alle ore 5 e 30, il governo Badoglio, il re e l'intera famiglia reale sventavano il pericolo di essere catturati dai tedeschi fuggendo da Roma. Mi appariva chiaro che la loro fuga lasciava Roma e le regioni del centro-nord nella più assoluta anarchia e nelle mani delle forze naziste ormai minacciose contro di noi, mentre già si avevano gravi notizie sul generalizzato dissolvimento dell'esercito italiano. Conoscevo alcuni soldati, ma già la mattina del 9 settembre li incontrai in abiti borghesi nel quartiere di San Giovanni, dove abitavo. Apparivano allegri, ma piuttosto sbandati. Tutta la città era immersa nel caos. Mia madre piangeva, mio padre imprecava. Mia madre aveva un fratello nell'aeronautica militare, un capitano pilota, che proprio in quei giorni si trovava in Germania. Ormai, per noi, la guerra si riassumeva nella sua persona. I nazisti si sarebbero vendicati con lui? Lo avremmo più rivisto? Mussolini! In quei giorni conoscemmo su di lui cose straordinarie. Apprendemmo i particolari piccanti di una sua avventura amorosa, con una ragazza che si chiamava Claretta Petacci e per la quale aveva fatto costruire una villa grandiosa alla Camilluccia e acquistato un magnifico pianoforte in un raffinato negozio di via Fontanella Borghese. Di quella vicenda non avevamo avuto che un vago sentore. Molti non ci credevano neppure, ma ora «Il Popolo di Roma», la cui direzione era stata assunta da Corrado Alvaro, rovesciava in prima pagina una caterva di lettere che i due si erano scritte. Erano proprio i bigliettini che per anni si erano scambiati il duce e la favorita. E appresi che lui si firmava «Ben». Quello era il duce dalla faccia feroce che ci era apparso per tanti anni, e che umilmente — e anche tremante — si era fatto esautorare dal Gran Consiglio del fascismo, l'organo che avrebbe dovuto difenderlo. Ma come, se la guerra era già perduta? In me stesso egli da tempo non era più il Duce. Antonio Spinosa