8 settembre 1943 Il pasticciaccio all'italiana nella tragedia
E, invece, la guerra (quella dichiarata) finiva, nel peggiore dei modi. Il vecchio maresciallo aveva incaricato il generale Castellano di avviare una trattativa con gli alleati per la firma dell'armistizio. Altri due generali - Francesco Rossi e Giacomo Zanussi - millantavano di aver avuto lo stesso incarico, alimentando la legittima diffidenza di Eisenhower e dei suoi collaboratori. Alla fine, dopo un tira e molla non troppo dignitoso, Giuseppe Castellano fu autorizzato il 3 settembre a firmare la resa a Cassibile, in Sicilia, nella stessa località in cui la notte del 10 luglio erano sbarcati i primi uomini dell'Operazione Husky. Fu concordato che la notizia dell'armistizio sarebbe stata diffusa cinque giorni più tardi, in concomitanza con il nuovo sbarco alleato (a Salerno) e per consentire al governo italiano di predisporre le contromisure per fronteggiare le prevedibili reazioni tedesche, e agli angloamericani per garantire la necessaria copertura alla nuova offensiva. Gli alleati fecero il loro, Badoglio no. Due alti ufficiali americani (il generale Maxwell Taylor, futuro capo di Stato Maggiore durante la guerra in Vietnam, e il colonnello Tudor Gardiner), raggiunsero Roma, in uniforme, per pianificare un lancio di paracadutisti sulla capitale. A Roma si trovarono di fronte un muro di gomma. Il capo di Stato Maggiore, Vittorio Ambrosio, era corso a Torino per assistere la moglie nel trasloco di casa; Mario Roatta, capo di Stato Maggiore dell'Esercito, mosse una serie di obiezioni al progetto americano; Giacomo Carboni, comandante del corpo corazzato di Roma, disse che gli aeroporti erano sotto il totale controllo tedesco, e che il suo corpo corazzato non era in grado di muoversi per mancanza di carburante. Taylor chiese allora di parlare direttamente con il capo del governo. Gli fu risposto che, a quell'ora (era la sera del 7 settembre), Badoglio dormiva. Il generale reagì in modo furioso, e la spuntò. Fu accompagnato nella residenza del primo ministro, che lo accolse in pigiama e vestaglia. "Le nostre truppe", disse il maresciallo, "non sono in grado di difendere Roma. Se l'armistizio viene annunciato ora, i tedeschi occuperanno subito la città e vi insedieranno un regime fascista". Chiese, dunque una proroga. Da Algeri, Eisenhower si rifiutò di rinviare l'annuncio. La mattina del fatidico 8 settembre, Vittorio Emanuele III (mentre venivano messi a punto i preparativi per la fuga che lo avrebbe portato a Pescara, e poi a Brindisi) confermò all'incaricato d'affari tedesco, Rudolf Rahn, che l'Italia non avrebbe tradito le alleanze. Alle 18,30 da Algeri fu diffusa la notizia della capitolazione italiana. Un'ora e un quarto più tardi Badoglio annunciò a sua volta la notizia in un messaggio radiofonico nel quale avvertì che le forze armate italiane avevano ricevuto la consegna di reagire "a eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza". Era il segnale del "rompete le righe". Lo sbandamento successivo degli uomini in armi ne fu la naturale conseguenza. Ogni singolo militare si trovò nella condizione di dover scegliere fra il Sud e il Nord: se continuare a combattere al fianco dei vecchi alleati, o dei nuovi. O, se tornarsene a casa. "Tutti a casa" fu il passaparola. Con questo titolo, nel 1960, Luigi Comencini raccontò la vergogna di quei giorni, e Alberto Sordi diede il suo volto a un sottotenente che, in mancanza ordini, scioglie le fila del suo reparto mandando tutti a casa. Una pagina nera. Scritta da pochi uomini inetti, di cui tutti gli italiani furono vittime.