Una rigorosa analisi del dissidio brigatista
Il suo «Buongiorno notte», infatti, parafrasi, nel titolo, di un verso di Emily Dickinson, punta diritto alle persone, trascurandone intenzionalmente la vera identità — salvo per Aldo Moro — e immaginando invece le reazioni di fronte al crimine orrendo che si accingevano a perpetrare. Da una parte, così, i duri del terrorismo, pronti ad andare fino in fondo in nome di ideali totalmente fraintesi anche se pervicacemente conclamati. Da un'altra quelli più turbati dalla situazione, chiusi in un appartamento a tu per tu con un grande prigioniero cui danno del tu, pur chiamandolo sempre «Presidente», anche se si sentono rispondere con il lei e che, ascoltandolo e ascoltando due delle sue lettere dal carcere, quella alla moglie, dopo la condanna a morte, e quella a Paolo VI, sentono a poco a poco venir meno le loro certezze infami. Specialmente una donna, qui chiamata Chiara, che, figlia di un partigiano assassinato dai repubblichini, finisce per collegare, sempre più in crisi, quel lontano omicidio a quello che lì, con il suo voto contrario, si sta per compiere. Bellocchio, che si è scritto anche il testo, analizza a fondo questa crisi, evocandovi attorno, condannandoli, l'ambiente e i caratteri — verosimili anche nell'invenzione — di quegli esponenti delle Brigate rosse in equilibrio precario tra la decisione e l'esitazione. Con un linguaggio cinematografico che, privilegiando il buio di quella «notte», serra da vicino tutti i personaggi, anche quando, specie Chiara, li segue all'esterno; scandendoli con ritmi quasi ossessivi che si placano solo di fronte al Prigioniero, alla sua calma rassegnata, alle sue risposte sempre alte: lasciando che la voce di Roberto Herlitzka, chiamato a reinterpretarne la figura, susciti, nella vicenda, momenti grondanti commozione; come, appunto, la lettura della lettera alla moglie e di quella al Papa. Dà vita, intensamente, al travaglio di Chiara l'interpretazione lacerata e lacerante di Maya Sansa: la cifra del film, il segno giusto del suo stile. Altro film in concorso, difficile però da accostarsi alla nobile impresa di Bellocchio, «Occhi che brillano» del serbo Srdjan Karanovic. Una commedia sentimentale nella confusione tra guerra e dopoguerra a Belgrado. Con la trovata di far interloquire con i vivi dei defunti, parenti o amici. Un grottesco sorridente.