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di FRANCESCO PERFETTI A CHI lo accusava di aver violentato la storia con i suoi molti e fortunati ...

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In un certo senso, l'osservazione dell'autore di I tre moschettieri era giustissima: i romanzi di Dumas padre - malgrado le inesattezze storiche, l'accorpamento di fatti diversi, l'alterazione di avvenimenti e la creazione di personaggi di fantasia in funzione delle esigenze narrative - consentivano (e consentono tuttora) al lettore di «capire» le linee evolutive della storia di Francia, la logica dei contrasti tra fazioni e poteri, la stessa strutturazione dell'Ancien régime. Ai tempi di Dumas padre il romanzo storico - soprattutto il romanzo fiume e ad episodi - era lo strumento privilegiato per chi avesse voluto unire il gusto dell'intrattenimento con quello della divulgazione storica o, anche, con certa vocazione pedagogica nazionale. Oggi, nella società dell'immagine, le cose sono cambiate. Eppure, un discorso analogo a quello che faceva Dumas padre si potrebbe ben riproporre, con riferimento a uno strumento più immediato e coinvolgente, il cinema. Per gli storici il cinema è una fonte che consente di cogliere gli umori della società che esso rappresenta o propone. Ma questo è un altro discorso. Il cinema può essere veicolo di divulgazione storica o di ripensamento anche critico delle vicende storiche di un paese. Vi sono degli esempi bellissimi. Basterà rammentare, in proposito, lo stupendo lavoro di Roberto Rossellini su «La presa di potere di Luigi XIV», che illustra, in maniera davvero mirabile, la creazione dello stato assoluto. O, ancora, un altro bellissimo film francese, che apparve anni or sono e che in Italia non ebbe il successo che avrebbe pur meritato: «A cena con il diavolo», stupenda illustrazione, attraverso una cena fra Talleyrand e Fouché, impegnati a discutere del loro futuro politico e dell'atteggiamento da assumere di fronte al trapasso dal regime napoleonico alla restaurata monarchia dei Borboni. Se il cinema storico può assolvere una funzione, per così dire, civile ed educativa, lo può, però, nella misura in cui non sia succube dell'ideologia. Il che, purtroppo, è cosa assai frequente nelle pellicole dedicate a fatti, momenti, personaggi della storia più recente. In questi casi, per la forza evocativa e la capacità stessa di diffusione del mezzo, il cinema può diventare strumento di propalazione di false verità. Un esempio solo, ma un esempio in certo senso clamoroso, è quello del fortunatissimo film di Oliver Stone, «JFK», sull'assassinio del presidente americano John Kennedy, che ha finito per accreditare nell'opinione pubblica mondiale l'idea, difficile da rimuovere, di un complotto ordito dalla CIA: tesi questa, come ha dimostrato lo storico americano Max Holland, non soltanto inconsistente ma funzionale a una operazione di depistaggio e disinformazione messa in piedi dai servizi segreti sovietici. L'idea del complotto, molto spesso internazionale, è alla base dei recenti film italiani - anche quelli presentati alla ultima edizione della mostra di Venezia - che, presentandosi come cinema-verità, hanno affrontato temi caldi della nostra storia più recente, dalla strage di Portella della Ginestra alla strage di via Fani e all'assassinio di Aldo Moro. Indipendentemente dal loro valore artistico, si tratta di prodotti costruiti sulla base della cultura del sospetto e del complotto e della categoria interpretativa (che già tanta confusione ha determinato a livello storiografico e che, peraltro, gli storici più avvertiti hanno rigettato) dell'esistenza di un «doppio stato» o doppio livello di potere, occulto e palese, nell'Italia repubblicana. Non siamo di fronte a film storici, cioè a pellicole che raccontano la storia, ma a film politici e ideologici, che contribuiscono ad accrescere le tensioni, ad alimentare sospetti, a ingenerare equivoci. Questa - la loro -

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