di CARLO ROSATI PESCARA non è Las Vegas o Santa Monica, però per un ragazzo che arriva da ...
E Tavarelli che si avvale dell'ottima fotografia di Roberto Forza presenta la nuova vita di Cenzo, un ragazzo che deve iscriversi all'Università, ma fa il cameriere. Ha la gioia di sentirsi «libero»: libero dal paese; libero dai problemi della gente di Bussi, un paese di «lavoratori socialmente utili», di disoccupati cronici dopo la chiusura del petrolchimico; libero, ma sempre schiavo, dei genitori. Cenzo si rifà una vita a Pescara, dove incontra Genny, una ragazza pulita, che viene da Trasacco, il paese marsicano che «ha le carote più buone del mondo». S'innamorano, litigano, s'ingelosiscono, poi si ritrovano a Roma. Un film che parte con un'atmosfera alla Ken Loach, con un «lavoratore sociale» che preferisce buttarsi in un dirupo, che si esalta nell'incontro amoroso, che si addormenta nel rapporto tra padri e figli; ma che rivela, nonostante i fischi nella visione stampa che hanno superato gli applausi, un autore da tenere in considerazione, e ottimi protagonisti, bravi anche sulla scena, come Elio Germano e Nicole Grimaudo, vicino ai quali spicca il padre depresso di Luigi Maria Burruano. Quasi una giornata per il cinema italiano quella di ieri. In mattinata al Palazzo del Cinema era passato il «ritratto» di Lizzani su «Cesare Zavattini» seguito da «La tivù di Fellini» di Tatti Sanguineti, centrato sul difficile rapporto tra il regista e il video, al quale è seguito, in Sala Volpi, l'omaggio di Cinecittà alla memoria di Raf Vallone con «Il cammino della speranza» che girò con Germi. Tra gli altri film in concorso c'è stato anche «Twentynine Palms» scritto e diretto dal francese Bruno Dumont, Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes del '99 per «L'umanità». Qui ha portato un film poco umano, criptico e in parte scandaloso, scritto in due settimane e interpretato da David Wissak e Katia Golubeva. Lunghe pause della macchina, lunghe pause nei dialoghi interrotti dai loro amplessi amorosi che finiscono tragicamente. Un film lungo, un «on the road» che ha portato a ridere ed applaudire la fine degli amplessi di questi due protagonisti solitari e nudi tra le bollenti pietre del deserto: quasi una «scultura vivente» che sarebbe andata meglio ai «Giardini» di Venezia per la Biennale Arte.