Esterházy anticipa il nuovo romanzo «Sta nel passato il bandolo della vita»

Ma poi passarono gli anni, il regime si addolcì e offrì un indennizzo per il maltolto. Allora Péter Esterházy fece stampare dei volantini con scritto: «Non accetteremo mai la restituzione della terra». Questo scherzo, che gli costò un litigio con i suoi fratelli, è sintomatico del senso dell'humour dello scrittore ungherese, discepolo di Sándor Márai; e di questo humour è impregnato il suo nuovo romanzo, che egli presenterà il 4 settembre al Festivaletteratura di Mantova, Harmonia caelestis (Feltrinelli, 716 pagine, 22,00 euro), in cui ripercorre diversi secoli di storia della sua famiglia. Esterházy ha 53 anni portati allegramente. Nativo di Budapest, mi dice non sentirsi legato a «nessun pezzo di terra» in particolare. E per completare la sua biografia, mi rivela : «Ho quattro figli, tutti della stessa moglie. L'essere umano nasce ignorante e se col tempo diventa sapiente, muore scettico. Io sono su questa strada». Signor Esterházy, mi racconti qualcosa della sua famiglia, le cui origini risalgono al XII secolo. «Le posso raccontare di quella mia prozia che sosteneva che una signorina educata quando è in visita in casa d'altri non deve mai chiedere di usare la toilette. Lei stessa, quando si sposò, continuò per tre anni a tornare ogni mattina a casa dei genitori per usare il proprio w.c.» Era una signora molto educata. «Certamente. Noi Esterházy siamo stati per molte generazioni proprietari di mezza Ungheria. In un baule ho ritrovato due documenti attinenti a mio nonno. Il primo era un decreto imperiale con cui l'imperatore Carlo IV lo nominava Primo ministro; il secondo una lettera datata 1951 con cui uno dei capetti del Partito Comunista del villaggio in cui tutta la mia famiglia era stata mandata al confino gli ordinava di accettare un incarico di guardiano notturno». Bisogna riconoscere che non sono cose che capitino a tutti. «Ma specialmente che non tutti avrebbe affrontato simili prove col nostro stile. I comunisti ci assegnarono una squinternata casa di contadini dove mangiavamo molto frugalmente, però con le posate d'argento che mia madre era riuscita a salvare, a rischio della propria pelle, dall'esproprio di tutti i nostri beni». Penso che l'importante fosse mangiare. «Sì, ma con classe. Mia madre, che era stata educata a curare i minimi particolari anche nella disgrazia, stilava ogni giorno un elegante menù e collocava quei foglietti sopra il piatto di ogni commensale. Il lunedì, per esempio, ci proponeva "patate spagnole alla povera", il martedì "deliziosi tuberi al vapore lento", e così via». Per i suoi genitori non doveva essere facile. «La mamma insisteva sempre sull'enorme differenza fra "essere poveri" e "vivere in povertà". Noi Esterházy non siamo mai stati poveri, e spero che non lo saremo mai. Almeno non al punto da impedirci di divertirci un po'». Ma perché indagare tanto sui propri antenati ? «Non lo so. Mio padre rideva quando sentiva decantare l'antichità della sua famiglia, e faceva notare che tutte le famiglie sono antiche. Io spero di aver imparato qualcosa dopo tanti anni che scrivo e riscrivo la storia della mia famiglia. Posso solo dirle che "dovevo" farlo. Scrivendo, mi sono confrontato con mio padre, e ora posso affermare di essere un po' meno figlio di mio padre e un po' di più padre dei miei figli».