Il «fiasco» dell'uomo e della Storia

«Fiasco» infatti sta proprio a significare il fallimento di una città — e di un uomo — che al centro dell'Europa del Novecento, aveva rappresentato uno dei punti di riferimento di maggior rilievo di un Occidente che in quegli anni, alla fine degli Ottanta, rifletteva la malattia d'Europa, il veleno mortale che aveva investito una delle capitali più spensierate e vitali, ridotta ad un intrico velenoso di vittime e di carnefici, con le spie a riempire un carniere già tanto pieno di perseguitati. L'emblema di questa condizione dell'io è rappresentato fin dall'inizio da un uomo, solo all'apparenza vecchio ma in realtà trasfigurato dagli eventi della sua magica città, colto nel momento del riflettere sulla propria condizione davanti a un secretaire che racchiude un nugolo di memorie incancellabili. È uno scrittore che si accinge a stendere sulla pagina la trama di un romanzo, «Fiasco» appunto, perché l'impeto struggente di fermare sulla pagina bianca la vicenda del proprio e dell'altrui fallimento è troppo insopprimibile perché ancora debba attendere a ponderare, a specchiarsi nella propria condizione di emarginato, di sradicato. Per tuta la prima parte del romanzo vengono documentati con perizia e profonda consistenza gli sforzi immani per dare un senso reale e concreto all'incipit, ad un inizio che deve necessariamente contenere in sé tutte le integre premesse della conseguente sconfitta. Chiuso ermeticamente in una stanza di un appartamento di una città che solo dai contraccolpi esterni si può immaginare come Budapest, il vecchio protagonista ferma nella rétina i tempi cruciali scanditi dalla parola, unica e sola arma a disposizione per dare un senso alla propria impossibilità di superamento della tragedia che vive e consuma nella propria coscienza di scrittore. Vuol rappresentare tutto realisticamente, ma la verità storica va oltre l'immaginabile, le purghe staliniane hanno stravolto i moduli più semplici del comportamento umano, iniettando ovunque il veleno della dittatura. Ogni sforzo di descrizione si riduce ad un fiasco inesorabile, dal quale non ci si salva. Esso è lì in agguato a decretare il fallimento, la resa senza condizione ad ogni logica concreta e autentica. La tecnica del romanzo nel romanzo va via via compiendosi nella realtà di un viaggio di cui si identifica rapidamente l'approdo. Köves, un personaggio che evoca alla mente la figura centrale di «Essere senza destino», il capolavoro di Kertész, ha abbandonato Budapest e sta per approdare in una città a lui sconosciuta, le autorità gli forniscono un documento di riconoscimento che equivale tragicamente alla più totale perdita di identità. Proprio quest'ultima — l'identità smarrita — è la scialuppa di salvataggio che gli viene offerta: e lui, lo scrittore, finisce per impossessarsene quasi inavvertitamente, un giorno dopo l'altro, con il mistificante aiuto di finti complici. Siamo al tempo del terrore del regime di Ràkosi, che per l'Ungheria ha segnato la stagione di più incancellabile terrore, con l'incubo della deportazione, fra il 1948 e il 1953: qui, in questo spazio di dolore e di pena, si incontrano i resti sfrangiati di una umanità che aveva vissuto un sogno e lo vede consumarsi sui chiodi di un nuovo filo spinato, terrificante quanto l'altro, travestito da svastica. Il grigiore di una realtà oppressiva e crudele, chiusa ad ogni possibile uscita di sicurezza, sospinge il protagonista verso la remota oasi dell'amicizia, dell'amore. È tutto vano e inutile, alla svolta della strada ecco il disinganno e il fallimento, il fiasco, appunto. Scritto sotto i colpi di un'ansia liberatoria che proprio a quel tempo andava concretandosi sul muro di Berlino, questo romanzo di Kertész si configura anche, e soprattutto, come un documento essenziale, a riprova e verifica di quanto la letteratura, con la sua forza p