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di CARLO SGORLON DI CARMINE Aliberti è uscita recentemente un'antologia di poemetti e liriche ...

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125 euro 8). Il volume contiene anche la traduzione inglese e introduzioni e note critiche di scrittori e saggisti di ogni latitudine. Un libro composito, in cui Aliberti ha radunato il meglio della sua attività di lirico e di ciò che altri hanno scritto su di lui. Un libro dalla struttura/singolare, dunque. Ma la singolarità maggiore consiste nei temi e nelle tonalità del volume, che si sottrae ai modi ironici, parodistici e dissacranti della cultura di oggi, almeno quella più seguita, e che provoca il maggior numero di vittime nell'esercito sterminato dei conformisti. Aliberti, come del resto l'autore di queste note, e pochi altri, si sente come un esule, perché immerso ormai in una cultura che non gli appartiene. È un poeta controcorrente, perché rimane fedele a modi di vivere e di pensare quasi tramontati, o almeno di spersi, che vivono dentro invisibili catacombe, come accade sempre ai dissidenti, e a coloro che non accettano di scivolare lungo i facili e ben oliati binari della storia. È legato al mito, ancora vivo e robusto nella sua Sicilia, memore di forme di pensiero e sentimento ancestrali, legate alle tante eredità culturali che si sono stratificate nell'isola attraverso i tempi. Per questo versante Aliberti può far venire in mente la sicilianità colta e mitica di altri scrittori conterranei. Aliberti è ancora legato alla civiltà contadina, pastorale e boschiva, che diventa protagonista nei poemetti «Aiamotomea» e «Nei luoghi del tempo». V'è in lui una forte nostalgia di una civiltà che è stata scalzata dai Signori dell'Industria, che ha diminuito la miseria della gente, ma è anche distruttiva e dissacratrice. V'è in Aliberti una collana di immagini e metafore semibarocche, che mettono a nudo le piaghe e le lacerazioni di questa civiltà e che rivelano (specie nel primo poemetto, «Il pianto del poeta», anche le degenerazioni sociali, gli attriti e i divari tra i ricchi industriali e le classi subalterne, schiacciate dal bisogno. A volte la visione di Aliberti si fa tempestosa, per non dire apocalittica. La delusione per la mancanza di valori del mondo e della cultura attuali esaspera il suo modo di sentire la vita, e lo fa uscire dai confini del sociale, dell'etica e del «lamento», per giungere a desolazioni più vaste, di sapore quasi cosmico. Ma il pessimismo assoluto non gli si addice. Aliberti non si rassegna a congedare la speranza. Accanto a questo sentimento lo scrittore dà vita lirica ad una «istituzione», che potremmo chiamare una «certezza», ossia la famiglia. Nei suoi poemetti si avverte che la famiglia e i suoi componenti,i figli soprattutto, l'aura familiare nella sua totalità, rappresentano un'oasi che si sottrae alla desolazione universale, edonistica, consumistica e mercantile del mondo odierno. È evidente il suo rifugiarsi nel «privato», un'isola in cui i sentimenti e i valori non sono visti come moneta scaduta, ma come una delle poche ricchezze di cui ancora si può disporre. Sul versante di questo tema le cose più belle sono forse il poemetto dedicato alla figlia, Helena, Artemisia, non mitizzata, ma vista come attraverso non so quali reminiscenze soavi di scrittori dell'antichità: la fanciulla che si sta facendo grande e quindi, in forza delle medesime leggi della natura e del tempo, si appresta a entrare nella vita. Un'altra oasi, cui Aliberti è molto sensibile, è l'amicizia. «Caro, dolce poeta» è un poemetto dedicato a un amico di cui sappiamo soltanto che è siciliano e che è, a sua volta, un lirico. Un'altra ragione per collocare Aliberti in una antologia elitaria di scrittori di una terra che, da De Roberto e Verga in poi, ha dato alla letteratura più di ogni altra regione italiana.

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