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di ONORATO BUCCI CORREVA l'anno 1942, e in un'Europa brutalizzata dai campi di concentramento ...

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E su quella rivista, unico momento di libertà della cultura italiana in quel tempo, comparve un saggio di 20 pagine dal titolo, diventato poi famoso, dal titolo «Perché non possiamo non dirci cristiani». In quel saggio, Benedetto Croce afferma che ad onta delle antiche divinità precristiane e ad onta anche del Wodan germanico («nonostante le adulazioni di cui ai nostri giorni si è voluto farlo oggetto», precisa) noi, «nella vita morale e nel pensiero, ci sentiamo direttamente figli del Cristianesimo. Ciò in quanto - continua Croce - il Cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l'umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un miracolo, una rivelazione dall'alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo. Tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana, non sostengono il suo confronto, parendo rispetto a lei particolari e limitate». Non quelle antiche, precisa Croce, che furono fatte proprie dal Cristianesimo (dall'Egitto e dal resto dell'Oriente, in primo luogo la civiltà giudaica), né quelle moderne, Umanesimo e Rinascimento in particolar modo, che sono sue appendici storiche, anche quando nel recupero classicistico acristiano (vedi Goethe e Carducci, sottolinea Croce) sono critiche verso la Chiesa di Roma ed è proprio la Chiesa di Roma che ha reso civili i popoli barbari e difeso l'Europa contro l'Islam («minaccioso alla civiltà europea»: p. 12 della ristampa, 1959). Tutto ciò è dovuto a «quei geni della profonda azione, Gesù, Paolo e l'autore del quarto evangelio» (p. 14, cit.). A loro si sono rifatti gli uomini dell'Umanesimo e del Rinascimento, gli uomini della Riforma, anche se in una lettura diversa di quella della chiesa cristiana cattolica; a loro si sono rifatti «i severi fondatori della scienza fisico-matematica della natura coi ritrovati che suscitarono di mezzi nuovi all'umana civiltà, gli assertori della religione naturale e del diritto naturale della tolleranza, prodromo delle ulteriori concezioni liberali; gli illuministi della ragione trionfante, che riformarono la vita sociale e politica, sgombrando quanto restava del medievale feudalismo e dei medievali privilegi del clero, e fugando fitte tenebre di superstizioni e pregiudizi; Vico e Kant, Fichte ed Hegel i quali, per diretto o indiretto, inaugurano la concezione della realtà come storia» (pp. 15-16). E ai «vagheggiatori del neopaganesimo» Benedetto Croce ricorda le parole che Jacopo Burckhardt pone sulle labbra dell'Hermes del Vaticano, immaginando che mediti così: «Noi avemmo tutto: fulgore di dèi celesti, bellezza, eterna gioventù, indistruttibile lietezza; ma non eravamo felici, perché noi non eravamo buoni». E il commento di Croce è questo, «che è quanto dire: non eravamo cristiani. Ecco perché non possiamo non dirci cristiani». Chissà se Giscard d'Estaing, che ha da poco siglato la bozza della Costituzione europea e che ha escluso in questa ogni riferimento al Cristianesimo abbia mai letto Benedetto Croce. Probabilmente lo ha fatto ma certamente lo ha dimenticato. Certamente anche Benedetto Croce non professò mai cattolicesimo rituale e se ci fu un laico fu proprio lui. Ma allora?

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