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di GIAN LUIGI RONDI IN CINQUANT'ANNI aveva recitato almeno in novanta film, se non in cento.

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Mario Camerini ad esempio, nel «Cappello a tre punte», con Eduardo e Viarisio, Mario Bonnard in «Campo dei fiori», con Aldo Fabrizi e Anna Magnani. Per arrivare, nel '50 al primo incontro con Fellini che, insieme con Lattuada, lo diresse in «Luci di varietà», a fianco di Carla Del Poggio. Seguì l'incontro con Sordi, «Un giorno in pretura» di Steno in cui recitava anche Walter Chiari, e presto l'incontro con Sosphia Loren nel «Segno di Venere» di Dino Risi, alternati a quelli sempre più ripetuti con Totò, al cui nome, nei titoli dei film, non tardò ad aggiungere anche il proprio: «Totò, Peppino e la... malafemmina», di Mastrocinque, e, sempre di Mastrocinque, «Totò, Peppino e i fuorilegge»; cimentandosi spesso anche da solo («Peppino, le modelle e... chella là, di Mattoli), tornando ancora, dieci anni dopo, a dividere il titolo con Totò («Totò, Peppino e la dolce vita», di Corbucci). Intanto, ad ogni svolta della sua carriera, continuava ad affiancarsi con i nomi di maggior prestigio del nostro cinema: Rascel, in «Policarpo ufficiale di scrittura», di Soldati, De Sica in «Ferdinando I, re di Napoli» di Franciolini, Tognazzi e Vianello in «A noi piace freddo», di Steno, Manfredi nel «Carabiniere a cavallo» di Lizzani, Macario nei «Quattro moschettieri» di Bragaglia, anche con Fabrizi e Taranto. Pronto a partecipare insieme con Rita Pavone all'esordio come regista di Lina Wertmüller («Rita la zanzara»), e facendo in tempo a recitare con Monica Vitti in «Ninì Tirabusciò» di Fondato e con Marcello Mastroianni in «Giallo napoletano», di Corbucci. Ogni volta con quella sua comicità attraversata da amari brontolii che a Quasimodo aveva fatto scrivere: «Una metà del suo viso è coperta dal buio, come in un'eclisse della tristezza dell'uomo, e attraverso questa contemplazione del silenzio e della morte si arriva all'altra metà, quella del sorriso, della risata senza ostacoli». Era stato di certo pensando alla duplicità di quella maschera che Fellini, nel Sessanta, l'aveva voluto protagonista del suo episodio «Le tentazioni del dottor Antonio» in «Boccaccio '70». Arcigno, duro, esaltato, ma anche così caricaturato e caricaturale da strappare il riso più di quanto gli accadeva a fianco degli altri grandi comici della sua generazione. Gli dovetti, in quell'occasione, una confidenza. «Lo sai — mi disse — che i testi che il mio personaggio scrive per protestare contro l'immoralità dilagante, tuo fratello Brunello li ha ripresi, per Fellini, da alcuni tuoi articoli su "Il Tempo"?». Quando vidi il film non riuscii a riconoscerli. Forse, però, per il calore, i colori e l'aggressività trafelata con cui Peppino li ricreava.

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