di LUCIO D'ARCANGELO FAMOSO per «Cuore», Edmondo De Amicis non fu soltanto uno scrittore-educatore, ...
Convinto assertore della fiorentinità, fu tutt'altro che sordo alle esigenze di una lingua che diventava sempre meno toscana e sempre più "italiana". Come si evince dal recente libro di Eugenio Tosto, «De Amicis e la lingua italiana» (Olschki, Firenze), De Amicis aveva in mente un modello di lingua pienamente "nazionale". Per lui «la lingua parlata fiorentina ha i pregi della naturalezza come tutti gli altri dialetti; ha con questi una larghissima coincidenza lessicale e di locuzioni; è, per motivi storici e culturali, la più vicina, tra i vari dialetti, alla lingua italiana, fino al punto da coincidere, quasi, con essa». È curioso che, ripercorrendo queste vicende , alcuni insistano tanto sulla vera o presunta mortificazione subita dai dialetti nelle scuole e tacciano invece sugli sforzi compiuti per insegnare la nostra lingua basandosi su quei testi davvero esemplari che hanno contribuito a formare una coscienza linguistica unitaria. Si dimentica, in altri termini, che l'interesse preminente della nuova nazione non poteva essere quello di conservare i dialetti, ma di facilitare l'accesso ad una lingua comune, anche se ciò poteva costare la perdita di alcune maniere di esprimersi. Un palermitano, un torinese ed un triestino avevano ieri più difficoltà ad intendersi di quanta non ne abbiano oggi. E questa facilità si chiama italiano. «Percorrendo in auto la penisola, parliamo con la gente e non ci passa neppure in mente che non possa capirci, perchè parliamo tutti italiano. Tutto ciò ci sembra naturale, ma in realtà è prodotto di storia». Nè al De Amicis sfuggiva il contributo secolare dei dialetti alla formazione della nostra lingua, anche se nei casi singoli, ovviamente, non sempre ebbe ragione, come quando ammetteva termini d'origine dialettale oggi scomparsi dall'uso e respingeva il veneziano «che bello» e il napoletano «nel contempo», che poi si sarebbero perfettamente acclimatati... Come non pochi scrittori postunitari De Amicis non era contrario all'uso del dialetto, a cui riconosceva ambiti espressivi propri e insostituibili; ma non perse mai di vista quel bene superiore che è costituito dalla lingua nazionale ed anzi di essa si fece propugnatore nella convinzione che per fare gli italiani occorreva anche diffondere la lingua d'Italia. E lo stesso Croce, che non era mai stato tenero con lui, lamentava che egli non avesse scritto quella grammatica italiana, «la quale, considerato il carattere del suo ingegno, poteva riuscire libro per più generazioni utile ed efficace a liberare gli scrittori italiani da tanti piccoli mali, fastidi e incertezze, promovendo una sorta di convenzione e di accordo dove convenzione e accordo sono possibili». Oggi che l'uso dell'italiano non riguarda più soltanto una ristretta classe intellettuale, ma una massa sempre più ampia di parlanti, e scriventi, la necessità di quell'accordo che De Amicis cercò di rendere effettivo con impegno costante e appassionato, non è venuta meno ed anzi si ripropone con maggior forza.