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Anche Jeff Bridges ha la febbre da cavallo

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«Dopo le donne le corse sono la mia vera passione. Negli Usa è tornata la febbre del gioco d'azzardo»

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Ma a ventidue anni, da poco entrato nella prestigiosa squadra di football dei Dodgers, si spacca la tibia in uno scontro e la sua carriera finisce lì. Non si dà per vinto. Si mette ad allevare cavalli da corsa finché un giorno di trent'anni fa il fratello gli chiede il favore personale di fare un piccolo ruolo in un film che lui sta producendo perché l'attore in carica è morto d'infarto. Jeff Bridges accetta. La sua faccia incanta pubblico e produttori, e da quel momento non lascia più Hollywood. E da allora è sempre rimasto in sella. Lo dimostra ancora con «Seabiscuit» un kolossal imperniato sull'ambiente degli ippodromi, delle scommesse, e dei fantini, appena uscito in Usa, che lo vede nel ruolo del protagonista assoluto. E Jeff Bridges, cinquantacinque anni appena compiuti, sfonda al botteghino e conquista la critica che all'unanimità gli attribuisce un prova da Oscar. Sente già odore di Oscar? «Per carità. Non sono cose che si dicono mai, è come augurare buona fortuna a uno che va a giocare a Las Vegas». Che cosa si deve dire a chi va a Las Vegas? «Divertiti, tutto qui. Perché ci si può divertire anche perdendo, altrimenti uno si sente obbligato a vincere». Va bene. Allora, si è divertito a fare questo film? «Molto, sì, davvero tanto. Soprattutto per il fatto che ha a che vedere con le corse dei cavalli che sono sempre state la grande passione della mia vita. Femmine e cavalli, le due grandi passioni dei timidi». Nel senso che i playboy sarebbero tutti dei timidi? «Non ho idea dei playboy. È una parola che mi dà fastidio perché ha una connotazione negativa. Identifica sempre il maschio come una specie di erotomane cacciatore. Le donne e i cavalli sono animali molto simili, capiscono l'animale uomo, lo sopportano, si fanno portare a passeggio, ma sono sempre pronti a un'inarcata di reni improvvisa e ci si può ritrovare in mezzo a un prato con la spina dorsale spezzata se non si sta attenti. E sia donne che cavalli sono esseri che vogliono soltanto essere accettati per ciò che sono. Insomma, sono le passioni che hanno sempre alimentato la mia esistenza. E sono contento che il film sia piaciuto a tutti, anche perché le corse dei cavalli sono ritornate di gran moda qui in America». Come mai? C'è un motivo specifico, secondo lei? «Il gioco d'azzardo ormai dilaga dovunque. Basta guardare la televisione in qualunque paese d'occidente per capirlo. Dalla reality tv ai giochi a premi, stanno sempre lì a istigare la gente a scommettere, puntare, e regalano soldi a chi dà la risposta giusta a domande assolutamente idiote: è una continua e subdola istigazione all'azzardo. E in tempi come questi, sempre più tecnocratici e sempre meno naturali, ogni cultura si rivolge alle proprie tradizioni. Qui in Usa il cavallo rappresenta la sintesi di ciò che c'è di più vero in assoluto nella cultura americana perché mette insieme la tradizione anglo-sassone della cavalleria, la cultura degli indiani che sono sempre stati grandi cavallerizzi e la tradizione dei pionieri che vivevano sul cavallo per spostarsi da una parte all'altra. Se ci aggiungiamo anche su il fatto che i cavalli sono animali molto sensuali e che gli ippodromi americani sono sempre frequentati da donne bellissime, si capisce perché stia avendo un successo così forte in America». C'è un ruolo che non le è mai riuscito di interpretare? «Ho fatto l'angelo e l'assassino, la vittima e lo stupratore, il timidone e il gradasso. Mi piace la diversità. Ma io non sono un autore, sono un attore, quindi non posso che risponderle: il ruolo che mi manca è il prossimo. Sono gli altri che se li inventano per me, io devo soltanto interpretare».

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